Chi ha detto che ogni possibilità di resistenza e di sovversione sia irrimediabilmente finita nel dimenticatoio? Se sei un “Bologna cowboy”, ciò che è iniziato, paradigmaticamente, nel 1977 continua – cambiando nomi, personaggi e forme – a imperversare a quasi cinquant’anni di distanza, e continuerà a farlo ancora per un secolo, fino al 2117. Non si può negare che il guizzo in avanti sia notevole; ha una dimensione epica, anzi, sostenuta dal riferimento ai cowboy nel titolo e a una copertina dove spicca, per quanto improbabile, un novello samurai. Se, in funzione di questa scarsa verosimiglianza, una certa ironia resta dietro l’angolo, occorre comunque dare atto alle possibilità di un noir politico e – ma soltanto in seconda battuta – distopico di poter proporre scenari diversi da quelli che restano, viceversa, piuttosto fragili, e non poco disperati, se consegnati ai territori della saggistica politica o della letteratura per così dire “alta”.
Tornando al romanzo, sono due reincarnazioni di Orazio Coclite a rappresentare questo epos, nel testo: Toni Rinaldi, nel 1977, e Nicodemo Rossi, nel 2047. In entrambi i casi, è l’epica dell’“uno contro tutti”, sostenuto anche da tanta cinematografia hollywoodiana nei suoi vari generi, come ad esempio l’hard boiled (citato esplicitamente nel testo, pur con un piccolo refuso). Sconfiggere Cobra Nero – costola neonazista dei servizi segreti italiani (a carattere fittizio, pur evidenziando chiare connessioni con il contesto di violenza politica della fine degli anni Settanta) – oppure sfuggire al “regime della Morte che cammina” – futuro governo ultrareazionario e post-atomico che imperverserà sull’Italia del 2047 (scenario, anche qui, non del tutto improbabile) – implica una resistenza attiva e dinamica che trova nell’uso della violenza non tanto la giustificazione per farsi “lotta armata”, ma una ragione di sopravvivenza entro logiche altrimenti annichilenti.
In realtà, le vesti eroiche sono consegnate, in entrambe le narrazioni, a una coppia, più che a un singolo individuo, ma la “cellula della resistenza” si spezza sempre, e in modo tragico. Emblematico è il caso dell’inganno e delusione provocati da Anneke Meinhof, nella storia di Toni Rinaldi, ribaltando e infine facendo cadere quello che avrebbe potuto essere un forte legame intertestuale con uno splendido film di Margarethe von Trotta, Anni di piombo (1981) – basato, anziché sui personaggi di Ulrike e Anneke Meinhof, sulla storia delle sorelle Christiane e Gudrun Ensslin (in ogni caso sempre legata alla RAF tedesca).
Un’alternativa a questa epica dell’individuo dal respiro maggiormente collettivo si trova verso la fine del libro, quando viene evocata un’iniziativa (anche qui con l’uso di una violenza che non è mai né idealizzata né, per altri versi, demonizzata) di autonomi, punk e anarchici, in una borgata romana, contro l’avanzata di quello spaccio di eroina che, sul finire degli anni Settanta, avrebbe costituito una spina nei fianchi dei movimenti tanto letale, pur se su altri livelli, quanto la repressione di Stato. Uno spostamento anche geografico, questo, che rende conto della “bolognesità” della narrazione – così com’è dichiarata anche nel titolo – in modo critico e non solo banalmente nostalgico, accostandovi altre realtà politiche attive nel Settantasette e illuminando per contro l’esistenza, a Bologna, di una rete di intrighi politici e polizieschi che fa da contraltare alle immagini più diffuse – mitizzanti, talvolta, ai limiti della depoliticizzazione – delle componenti sociali della città in quegli anni.
Al contrario, un romanzo come quello di Baldrati – che, d’altra parte, prende le fila da un momento cruciale del Settantasette bolognese come l’omicidio di Francesco Lorusso, – non trascura mai l’orizzonte politico della narrazione. Lo fa anche nella sua componente fototestuale, rappresentata da una sessantina di immagini scattate dall’autore alla fine degli anni Settanta negli ambienti del punk e della new wave bolognese – materiale assai prezioso, che non ha nulla da invidiare a un’opera fotografica simile per tematica e per approccio come quella del fotografo Dino Ignani, a Roma, e che da sola vale il prezzo del libro. È un’opera davvero “ritrovata”, che echeggia così il topos del manoscritto ritrovato usato per introdurre le storie di Toni Rinaldi e di Nicodemo Rossi, rifrangendone ed amplificandone la portata. Ed è di questa caratura tematico-ideologica sotterranea che vuole dar conto questa nota di lettura, tralasciando forse i riferimenti più diretti a trame e personaggi che procedono spesso con l’asciuttezza, e occasionalmente con la sciattezza, “brutta, sporca e cattiva” del noir.
Merita, in ogni caso, una menzione finale al dettaglio paradigmatico relativo a un personaggio, ossia il nome di Nicodemo Rossi. Se in un primo tempo il suo nome sembra rimandare al nicodemismo di un personaggio che da agente di polizia del nuovo regime reazionario e post-apocalittico si riscopre novello Winston Smith – i riferimenti orwelliani della narrazione che lo riguardano sono talora evidenti, come nel caso dell’algoritmo incaricato di una sorta di sorveglianza totalitaria ma denominato “Peace & Love” – e riesce poi ad addivenire alla propria resistenza privata, Nicodemo rimanda, etimologicamente, all’esistenza di un “vincitore tra il popolo”. O anche, con un piccolo scarto interpretativo, a quella “vittoria del popolo” che resta la speranza, sottotraccia, dei cinquant’anni che ci stanno alle spalle e del secolo circa che ci attende.