Pasolini, il mito che non nega il reale

Il lascito di Pasolini è tutto nella tensione mai ricomposta tra la consapevolezza del degrado e gli attimi stupiti di contemplazione della bellezza, che il passato non è una medaglia e non costituisce un merito ma che conta solo l'amare, solo il conoscere.

Alle volte è dentro di noi qualcosa
(che tu sai bene, perché è la poesia)
qualcosa di buio in cui si fa luminosa
la vita: un pianto interno, una nostalgia
gonfia di asciutte, pure lacrime.

 Pasolini non è stato esclusivamente l’intellettuale corsaro, l’opinionista scomodo, il regista di controversa tecnica cinematografica, il romanziere blasfemo; egli è stato soprattutto e in ogni cosa un poeta, per quanto le vicende biografiche e il carattere proteiforme e complesso della sua arte abbiano contribuito a metterne in luce, agli occhi dell’opinione pubblica, gli scandali più che la dolente sensibilità.

Muovendosi sulle tracce del suo “folle amore” per la vita traslato sulla pagina letteraria, dal mondo contadino delle Poesie a Casarsa (custodi di autenticità, composte in un friulano percepito come una vera e propria lingua, nel rifiuto netto del centralismo linguistico propagandato dall’ideologia fascista), passando per le borgate romane dei ragazzi di vita (“Stupenda e misera / città che mi hai fatto fare / esperienza di quella vita / ignota”), e poi la Matera dei Sassi, fino all’India (di cui canta l’odore, a differenza del razionale Moravia che ne fissa l’idea) e all’Africa (in cui vuole ambientare la sua Orestiade), ci si accorge di una corsa disperata e disperante verso sud, in una sorta di ansia di meridione, alla ricerca della radice del mito, che è la radice dell’umano.

Scandalizzato dall’assenza del senso del sacro nei suoi contemporanei, Pasolini legge Frazer ed Eliade accogliendone la lezione di apertura nei confronti del reale, segnando in questo senso la distanza da Pavese: il dialogo con il mito non può cioè condurre a uno sterile e autodistruttivo ripiegamento individualistico, ma deve anzi incoraggiare uno slancio verso ciò che c’è fuori. Ed è proprio questo sguardo orientato verso la verità, nelle sue più laceranti contraddizioni, a portarlo a mettere a fuoco e quindi a denunciare la deriva di un mondo desacralizzato, in cui tenta, con il suo agire politico e artistico, di incorporare i simboli della tradizione tragica antica.

In questo iato tra il tempo prima del tempo, quello delle origini, e il tempo della storia, quello ormai corrotto dagli idoli del consumismo, trovano il loro spazio quelle riflessioni pasoliniane che culminano nelle sue celebri riletture del mito di Edipo e di Medea. Due pellicole in cui il sacro risuona come una domanda, come un’attesa. La Grecia “barbarica”, orale, arcaica prorompe sullo schermo riportandoci per contrasto alla realtà moderna dell’Occidente, a un universo che ha ormai smarrito quell’equilibrio vitale tra la potenza sacrale del rito e il controllo razionale delle passioni.

Se il mondo di Medea si muove onorando il tempo ciclico del mito, quello di Giasone procede secondo una linea retta, sempre più lontano dai suoi ricordi di bambino, quando il Centauro gli mostrava la sacralità della natura: “tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo”. Ormai l’uomo non sa più come riconoscere nel cielo e nel mare le manifestazioni del divino, le tracce della sua presenza sacra. La distanza tra i due universi antitetici è insanabile: da un lato, il regno arcaico, barbarico, ieratico della maga, che si regge su rituali, incanti e sortilegi, dall’altro l’orizzonte razionale e irreligioso di Giasone che si presume civilizzato.

“Solo detto questo, o urlato, la mia sorte / si potrà liberare: e cominciare / il mio discorso sopra la realtà”: il lascito di Pasolini è tutto in quest’urlo da altri soffocato, nella tensione mai ricomposta tra la consapevolezza del degrado e gli attimi stupiti di contemplazione della bellezza, nella presa di coscienza che il passato non va esibito come una medaglia perché non costituisce un merito, nell’insegnamento supremo che conta solo l’amare, solo il conoscere.