Ragionare su George Orwell

La recente decadenza dei diritti d'autore sulle opere di George Orwell (1903-1950) attira l'attenzione di editori e pubblico italiano

Raramente il calendario rende possibile riparare un torto. La recente decadenza dei diritti d’autore sulle opere di George Orwell (1903-1950) attira l’attenzione del pubblico italiano su di esse, ed è una di queste rare occasioni; lo scopo di questa nota è di non sprecarla. L’ultima e più famosa opera di Orwell è 1984, il vasto romanzo distopico da cui ereditiamo il termine Grande Fratello e l’aggettivo orwelliano. Orwell è combattente col fucile e con la penna, antifascista, anticapitalista e trotzkista; scrive grande satira antistalinista e testimonia la miseria in Francia e nell’Inghilterra dell’epoca di Hercule Poirot e Agatha Christie a partire dal suo romanzo Senza un soldo a Parigi e a Londra. La sua vita conferma il giudizio che vede 1984 come una critica allo stalinismo. Il Grande Fratello è il Piccolo Padre Stalin che tutto sa e tutto vede; orwelliani sono il controllo totale dei pensieri e dei minimi gesti, e la strenua autocensura necessaria a sopravvivere alle Grandi Purghe. L’aver denunciato il servilismo degli intellettuali britannici verso l’Unione Sovietica e l’essere scampato alle fucilazioni staliniane mentre combatteva con gli anarchici e i trotzkisti in Spagna inquadrano Orwell come punta di lancia dell’anticomunismo, un acuto Guareschi tragico. Questo giudizio è corretto. È anche completo? No. Vediamo perché.

Orwell è recensore e critico letterario, assorbe come una spugna e percepisce correnti sotterranee della società, sensibile alla cultura materiale (come un Walter Benjamin e prima degli Annales), alla letteratura popolare e al fumetto (prima di Umberto Eco), come dimostra in saggi come Good Bad Books e soprattutto Boys’ Weeklies, una disamina del fumetto britannico e del suo rapporto con quella che Antonio Gramsci chiamerebbe egemonia nel quadro della lotta di classe. Tiene alla propria onestà intellettuale, il tradimento della quale vede come un primo passo verso la tirannide. Pensa che una vita degna si basi sulla capacità di apprezzare le cose umili di tutti i giorni e la natura, arrivando a scrivere in favore (sic…) della cucina inglese e a difendere il campione del disimpegno letterario P. G. Wodehouse, e attività minori come lo smercio di cartoline osé. Ignora Bertolt Brecht che scrive che di questi tempi anche parlare di alberi è un delitto. Si indigna perché i proletari non possono accedere a tale vita degna né lontano dalle città né dentro di esse. Propugna entusiasta il trionfo imminente del socialismo come unica soluzione logica ai problemi umani. Apprezza in Charles Dickens l’acutezza e l’empatia, non il vedere nella generosità del ricco la soluzione dei problemi del povero. Auspica invece una società dove la vita degna di tutti sia garantita e non dipenda dalla carità altrui, e con questo fine in mente scrive.

Ma già qui Orwell comincia a intuire la crepa; e a suo eterno onore, non la nasconde ma la evidenzia. La gente comune si bea di violenza crudele e insulsa cafonaggine nello sport, nelle letture e negli spettacoli, in vacanza e nelle istituzioni del sorvegliare e punire foucaultiano: la scuola e l’ospedale. Nel suo saggio Pleasure Spots troviamo una descrizione di un resort per le vacanze che anticipa le atmosfere dei film di Jacques Tati. L’onnipresente musichetta di sottofondo ritorna nei teleschermi di 1984.

La gente istruita è peggio. Salvador Dalì è esaltato per la perversione, Jonathan Swift per la misantropia. Paura e volontà di prevaricazione del branco conducono le persone istruite che padroneggiano le parole a usare un linguaggio pubblico costruito di frasi fatte per intortare il prossimo. Dato che la felicità è soddisfacimento del bisogno, la sua percezione nasce dal confronto con esso: ciò che rende eterna la gioia dei beati è la contemplazione delle incessanti pene dei dannati. Definire Orwell agnostico è un eufemismo: si veda il suo rifacimento dell’Inno alla Carità di San Paolo nel romanzo Fiorirà l’aspidistra, dove la carità è sostituita dal denaro. La lealtà a un gruppo spinge all’autocensura e alla dissociazione dalla realtà. La prima mina la creatività, letteraria e non. La seconda glorifica nel gruppo cui apparteniamo il potere su avversari non importa se immaginari o reali; ciò vale per tutte le ideologie, anche quelle che si vogliono pacifiste, progressiste e democratiche. Siccome chi sa usare le parole si intruppa come tutti gli altri, un potere sufficientemente forte modifica il linguaggio e altera la comunicazione. Così, solo un’Inghilterra indebolita lascia che Gandhi occupi i mass-media; in Siberia, invece, chissà quanti Gandhi sono spariti e non se n’è saputo nulla.

Gli intellettuali irregimentati nella loro venerazione del potere impediscono ai poveri di prendere coscienza del loro stato e di ribellarsi perché adulterano il linguaggio. Includono sia l’intellighenzia filosovietica, filofascista e cattolica sia un politologo statunitense ex-marxista, James Burnham, che aveva previsto il sorgere di mega-Stati continentali fortemente burocratizzati. Dopo Hiroshima, Orwell cambia idea e riconosce in You and the Atomic Bomb che la Bomba favorisce il sorgere di tali mega-Stati a scapito della libertà individuale. Burnham fonda la sua previsione su una teoria delle élite, che vede la Storia come un susseguirsi di società diverse, ma accomunate da una forte diseguaglianza che si mantiene stabile nei secoli anche se cambiano i nomi dei protagonisti. Orwell va oltre e si chiede perché non sia possibile per il futuro una politica fondata su basi morali, o, in altre parole, perché le leggi della politica e quelle della morale individuale, della vita degna, devono essere stabilmente diverse. Era necessario che fosse così in una società preindustriale, come dice Machiavelli. Ma oggi?

1984 è la risposta finale di Orwell a questa domanda. Utilizza tutte le idee viste in precedenza. È una descrizione dei regimi totalitari. Precorre le idee di Hannah Arendt: ogni totalitarismo è un vortice cieco che si alimenta del bastone (il terrore indiscriminato, la precarietà universale) e della carota (le promesse dell’ideologia), contribuendo a stabilizzare le disuguaglianze fra esseri umani e modificando il linguaggio e il significato stesso delle parole. Precorre anche il lavoro di Victor Klemperer sulla lingua del Terzo Reich e l’ipotesi di Sapir e Whorf (la lingua plasma il pensiero). Riecheggia la dottrina di Wilhelm Reich sull’attività sessuale come antidoto all’indottrinamento, perché nella società totalitaria di 1984 il piacere femminile è tabù, quello maschile clandestino.

Ancora più in profondità, 1984 è un saggio sul potere. Il potere, definito come capacità di far soffrire gli altri, è la struttura portante di società costantemente diseguali in tutte le epoche a partire dal Neolitico fino a oggi e a prescindere dal colore politico, e si riprende il principio di Pareto, per il quale l’ottanta per cento della popolazione dispone del venti per cento delle risorse a tutte le latitudini e con tutti i governi.

Ecco la risposta alla domanda posta nel saggio su James Burnham: Machiavelli e Burnham hanno ragione perché, una volta messo in moto, il meccanismo produzione di dolore-produzione di linguaggio è stabile come un giroscopio: chi non si adegua non ha le parole per dirlo e per convincere altri, e finisce liquidato – anzi, vaporizzato – come un Gandhi in Siberia. La stessa fine rischia chi – come Orwell in Catalogna – è abbastanza sveglio per capire come funziona il sistema e non arresta il suo pensiero, mostrandosi privo della necessaria stupidità protettiva.

Siccome il potere è in ultima analisi arbitrario, è profondamente irrazionale, ed è quindi alla lunga nemico dell’indipendenza del pensiero razionale (Freedom is the freedom to say that two plus two makes four. If that is granted, all else follows) ma non della tecnica che da esso scaturisce e che gli consente di perpetuarsi. Ricordiamo La distruzione della ragione di György Lukàcs. Il potere vive dunque in uno stato di continua dissociazione cognitiva (doublethink) che si sottrae al contatto con la realtà perché ne riscrive continuamente la storia, per cui alla fine war is peace, freedom is slavery, ignorance is strength.

L’essere umano smette di essere libero di fare ma è liberato da un presunto male insidioso e onnipresente (thoughtcrime) tramite l’annullamento della capacità autonoma di parlare, dunque di sentire, in una nuova lingua (Newspeak) dal vocabolario sempre più striminzito e pieno di sigle che si usano per ripetere a pappagallo (duckspeak) frasi fatte a mo’ di “politically correct” e in cui sono inculcati gli slogan di una guerra. Guerra che forse nemmeno esiste fuori dai teleschermi (che spiano le nostre conversazioni e le nostre parole mentre trasmettono, e che solo pochissimi privilegiati possono spegnere), ma che senza fine prosegue tenendo tutti in uno stato di frenetica precarietà e stabilizzando il sistema in una Londra sterminata fatta di case cadenti e in preda a incomprensibili aggressioni terroristiche, come poi in Eden, il romanzo di Stanislaw Lem. La maggior parte delle persone, estranea alla macchina amministrativa che serve a sostenere se stessa, manco si rende conto di quello che le succede sopra la testa, passa la vita a giocare d’azzardo e a bere cattivo gin di monopolio, dunque non prende coscienza e non si ribella.

1984 non è solo un testo antistalinista. Nazisti e comunisti vi vengono del pari definiti codardi e ipocriti perché è un saggio sul potere scritto in forma di romanzo. E non solo sul potere totalitario. Certo, non abbiamo qui la polizia che ci viene a prelevare di notte. Ma il fatto che la struttura della società sia rimasta essenzialmente sempre la stessa dall’antichità vuol dire che tante cose che si trovano nel libro ce le troviamo anche nella vita di oggi. Non c’è solo il Grande Fratello televisivo (appunto, un esempio di abolizione della privacy) né il possibile monitoraggio permanente del comportamento individuale, ottant’anni prima di Alexa e dei social. Ci sono anche la dipendenza del linguaggio dal potere, la divisione in classi (tanto più severa quanto più negata), la stabilità di tale divisione attraverso le epoche, lo stato di “guerra infinita” a durata indeterminata e il conseguente ottundimento delle coscienze, la strategia della tensione, l’equilibrio del terrore nucleare, la divisione del mondo in sfere d’influenza, l’instabilità permanente in vaste zone del Terzo Mondo, la diffidenza verso il pensiero scientifico, il controllo statale del gioco d’azzardo legale, il prevalere del “politically correct” e il contemporaneo diffondersi di ogni sorta di negazionismo, la conoscenza del mondo esterno tramite stereotipi, la precarietà permanente a ansiogena della vita quotidiana, e la maggior rilevanza sociale del lavoro d’ufficio rispetto al lavoro manuale. Il che rende meno sorprendente l’interesse per Orwell e per la sua opera più grande.

Saggi, recensioni e articoli di George Orwell sono stati raccolti in diverse edizioni. Se ne riportano alcune:
Cronache di guerra, tr. Amelia Valtolina, Leonardo, 1989
Nel ventre della balena e altri saggi, Bompiani, 1996
Romanzi e saggi, Meridiani Mondadori, 2000
Ricordi della guerra di Spagna, tr. Manuela Palermi, Datanews, 2005
Gli anni dell’Observer, tr. Ester Dornetti, Baldini Castoldi Dalai, 2006
Come un pesciolino rosso nella vasca dei lucci, tr. Elena Cantoni, Elèuthera, 2018
Il potere e la parola, tr. Antonio Tozzi, Piano B, 2021

Su Pulp una recensione di Domenico Gallo a Il potere e la parola. Saggi su propaganda, politica e censura.