Il viso irregolare e caotico di Pierre ne definisce il carattere inquieto, colmo di pensieri pronti a erompere a sorpresa, devastando l’apparente tranquillità dell’esistere borghese. C’è molto di René Crevel in questa descrizione estratta da La morte difficile, frutto impervio e doloroso di uno dei maggiori scrittori surrealisti. Un romanzo che si impone, nonostante l’idiosincrasia per il genere enunciata da Breton. Nei ritratti che ci restano, Crevel appare con fattezze a metà fra l’angelico e il demoniaco, gli occhi magnetici a interrogarci con quesiti impossibili. Allo stesso modo, Pierre non riesce a vedersi nella propria totalità, ma solo come insieme di frammenti, di elementi eterogenei in perenne trasformazione: “Pierre, che non discerne i suoi limiti e, perciò, dubita della propria esistenza”. Provare a mettere ordine nel caos è vano. Profonde malinconie lo avvolgono, una strana letargia lo affligge, una natura pessimista lo condanna al naufragio. Il suo cuore non è mai stabile, “sempre o troppo caldo o troppo freddo”. La figura paterna, perennemente impegnata a scrivere la medesima lettera indirizzata al fantasma di Madame de Pompadour, è più di una minaccia; Pierre è votato, inevitabilmente, alla follia. Il salotto borghese nel quale principia la narrazione, apparentemente innocuo, viene sconvolto da dinamiche suicidarie. Una pendola che non va più avanti diviene presagio di morte. La conversazione iniziale fra la madre di Pierre e la signora Blok devia immediatamente sul tema del suicidio e della pazzia. Il signor Blok si è dato la morte, per ragioni inspiegabili.
Per quelle strane alchimie che rendono tanto affascinante la letteratura, come Robert Walser prefigurò la propria morte nella neve in un romanzo del 1907 dal titolo I fratelli Tanner, quasi squarciando il velo che lo separava dalla sua fine futura, avvenuta nel 1956, così Crevel, nel romanzo Détours del 1921, fa uccidere il protagonista con il gas, prefigurando il proprio suicidio messo in atto con le medesime modalità nel 1935. La differenza fra la casualità e l’atto volontario non riduce il fascino delle misteriose traiettorie, dei segnali che gli scrittori lasciano al proprio passaggio, vere e proprie sfide per il lettore che tenti di decifrarli. Da questo punto di vista il testo di Crevel, con il suo afflato visionario, con la sua forza onirica, appare emblematico. Il reale è costantemente in bilico su un piano inclinato, pronto a scivolare negli abissi tortuosi della mente. La colpa risiede nel guardare troppo nel profondo di sé stessi. Un corpo nudo appare come “una caffettiera gigante di pelle e ossa”, la lampada che arde dietro il vetro degli occhi “imputridisce il cielo”, l’ansiosa ostinazione illumina “messe nere fra le navate d’ossa”. In un Louvre imbottito di piume un uomo vaga alla ricerca dei propri occhi, che “per sbaglio ha lasciato cadere dalle orbite”. Le atmosfere sognate non attenuano la disperazione che serpeggia in un testo, la cui forza risiede proprio nel sottile e mirabile equilibrio fra reale e immaginario. Nessuna parola può descrivere il vuoto nel quale Pierre è destinato a precipitare. L’indifferenza, lo spirito impenetrabile di Bruggle, musicista modellato sul pittore Eugene McCown al quale l’autore era sentimentalmente legato, lo tormenta. L’artista è anche una canaglia. Il loro rapporto è una lotta, un farsi del male, una malattia dalla quale non si vuole guarire. La devozione di Diane non gli basta, anzi lo annoia. L’amore, fra loro, è impossibile. Possono solo andare avanti, come due sonnambuli nel vuoto. Alla fine tutto precipita in un caleidoscopio festaiolo fatto di pianole automatiche e di ballerini ebbri.
C’è una vertigine in Crevel che anticipa Genet, la sua inesausta ricerca estetica all’interno dei traumi più sconvolgenti, il suo porsi al di fuori della morale consueta, la sua irrequietezza che sfugge qualsiasi classificazione, ma trova fondamento nel tentativo di scardinare le comodità borghesi. Il suicidio è l’unico atto di ribellione possibile, un grido contro l’indifferenza, la sola maniera per mostrare il proprio disgusto nei confronti del mondo. “Aveva freddo, ma il suo cuore, che voleva vestirsi, ha mendicato tra i passanti e non ha ricevuto altro che stracci”.