Su Makatea, un’isola della Polinesia francese, si incontrano per l’ennesima e decisiva volta i destini di quattro esseri umani le cui vite sono legate, per un motivo o per l’altro, da lunghi anni di vita e reciproca influenza. Todd Keane, uno che ha raggiunto la ricchezza, il riscatto sociale a seguito di una caduta e la fama grazie alla tecnologia il cui ultimo sviluppo è un’intelligenza artificiale all’avanguardia; Rafi Young, un letterato di estrazione proletaria impegnato con Todd in un confronto a distanza nel gioco strategico in cui hanno trasformato la loro amicizia pluridecennale; Ina Aroita, artista e moglie di Rafi, cresciuta tra le basi militari; Evelyne Beaulieu, oceanografa che ha fatto della ricerca sul campo la sua vita senza mai riuscire fino in fondo a vivere la propria famiglia. Si incontrano in occasione di un progetto gestito da Playground, l’azienda di Todd, che consiste nella costruzione della prima isola artificiale completamente autonoma e abitabile, per la cui realizzazione è necessario appoggiarsi a Makatea. Il progetto definirà il destino dell’isola e vedrà le vite i Rafi, Todd, Ina ed Evelyne misurarsi con i limiti dell’umanità e dell’agency che le persone hanno sul mondo.
Il termine opera-mondo non è solo una moda in letteratura, indica anche l’esigenza di trovare determinate caratteristiche in un libro, sopra tutte le altre la complessità intesa non tanto come struttura articolata, moltiplicazione dei piani temporali, non linearità e quantità elevata di punti di vista. Questi sono certamente strumenti tecnici per ottenerla, ma non esauriscono il concetto stesso di complessità. La stratificazione è anche a livello tematico, ampie e profonde sono le riflessioni che dalla semplice visione di trama come traiettoria, che non va comunque per forza a scomparire, anzi in definitiva può essere un aiuto a mantenere coordinate solide per una leggibilità la cui importanza è troppo spesso sottovalutata, evolvono il romanzo in un dispositivo che produce metafore, concetti, immagini e paradigmi. E la metafora che funge da spina dorsale a Un gioco senza fine, è come minimo solida: il gioco come primordiale e intramontabile creazione di una realtà artificiale mediata da regole stabilite dagli esseri umani, nata dall’esigenza di una forma di controllo sulla realtà stessa, una creazione sulla cui efficacia la domanda resta aperta. Todd e Rafi costruiscono su questo la loro relazione, passando dagli scacchi al go con il farsi più profondo e complesso il loro rapporto, e a modo suo Evelyne stessa usa le immersioni a scopo scientifico come forma di downgrade della vita da una forma di gioco più complicata a una più semplice, limitata e dai confini più definiti.
L’arrivo dell’intelligenza artificiale va a intaccare questa metafora e la sineddoche di questa svolta, che si compie a diversi livelli nella trama e nelle interazioni fra i personaggi, è la notizia di Kasparov battuto da Deep Blue con la strategia della forza bruta, che di per sé non risolve il conflitto, comunque il computer fu aiutato dagli scienziati che inserirono quella mole immensa di aperture scacchistiche, mosse e contromosse, ma indica quella che poi sarà la via del futuro, la pura capacità di calcolo come campo in cui l’IA supera di netto l’essere umano e l’unica possibilità, che non è detto si attualizzi, di forma di controllo sulla realtà tutta a fronte del possesso di una mole di dati che le persone non saranno mai in grado né di registrare né di elaborare. Un altro limite dell’umanità, perché essa e ciò che la definisce sono uno dei nuclei tematici di Un gioco senza fine insieme alle ormai imprescindibili riflessioni sull’antropocene, è quello della caducità del corpo. I protagonisti crescono, alcuni di loro partecipano al superamento dei limiti della dimensione fisica attraverso l’applicazione concreta dell’immaginazione – Evelyne con il padre che inventa il respiratore automatico subacqueo – ma sperimentano anche la temporaneità di detto superamento. Il corpo invecchia, si ammala e decade, talvolta è addirittura una tragedia a ucciderlo accidentalmente ben prima di un termine accettato come ragionevole, ma sta di fatto che alla fine il banco vince sempre. Non importa quante mani giochiamo e quanto bene le giochiamo, queste sono le regole e non è possibile barare.
Non diversamente da Il sussurro del mondo, quest’ultimo lavoro di Powers è un grande romanzo corale che si apre nello spazio e nel tempo, prendendosi tutta l’ampiezza di respiro di cui ha bisogno per comporre un’architettura ricca e articolata, un’opera che se inserita nella produzione dell’autore, in particolar modo se la si vuol comparare con un romanzo breve e raccolto nella sua altissima densità come Smarrimento, ne testimonia la versatilità e soprattutto muscoli di narratore possenti come in pochi altri, capaci di misurarsi con efficacia con l’iperoggetto mortoniano chiamato realtà nel gestire una mole di racconto non certo mai vista, ma tale da creare un universo narrativo credibilmente definibile come mondo.


