Se la soglia è un inganno: la ricerca poetica di Bonnefoy

Yves Bonnefoy, Nell’inganno della soglia, tr. Fabio Scotto, il Saggiatore, pp. 184, euro 23,00 stampa, euro 10,99 epub

Ogni poeta intesse il suo dialogo con l’oltre, intona il suo canto fatale per sfidare l’indicibile. Come Orfeo che alle porte degli inferi osa oltrepassare un limite ritenuto invalicabile, così chi scrive si staglia sull’orlo di un abisso per pronunciarne la vertiginosa seduzione. Eppure, talvolta quell’attrazione irresistibile verso una dimensione altra può rivelarsi ingannevole. Lo riscopriamo con lo scrittore francese Yves Bonnefoy grazie alla recente riedizione, per i tipi de il Saggiatore, della sua raccolta del 1975 Dans le leurre du seuil, pubblicata ora in una nuova traduzione, a cura di Fabio Scotto, con il titolo Nell’inganno della soglia.

Vibrante come una terra esposta all’impetuoso sferzare di venti selvaggi, questa silloge, intimamente franta, quasi a mettere in discussione il carattere univoco dell’esperienza sensibile, viene concepita dal poeta francese tra il 1969 e il 1974, anni trascorsi in una grande casa a Valsaintes, nell’Alta Provenza. Bonnefoy considerava quella dimora custode di memoria, storia, senso del sacro, perché in passato era stata un’abbazia appartenuta a monaci cistercensi; lo stato di abbandono in cui versava comportò reiterati interventi di restauro, che purtroppo non andarono in porto, segnando di fatto una sorta di fallimento. Le suggestioni offerte dalla bellezza indomabile di quel luogo e lo sconforto dato dalle condizioni di irredimibile rovina costituiscono il terreno su cui poggiano le fondamenta di questa raccolta, ne segnano le intime ragioni, il carattere di sperimentazione e una certa radicalità.

La poesia domanda e Bonnefoy prova a mettersi in ascolto di una possibile risposta che provenga dall’esperienza stessa del mondo: i fiumi a lui cari, le pietre, le voci, i riti dell’amore. La tensione che da queste pagine promana non scaturisce da una meditazione di tipo concettuale, che costituirebbe anzi un tradimento della realtà, ma dall’attenzione prestata al paesaggio circostante, all’oggettività del reale; la parola poetica nasce cioè proprio dal dir di sì a un ideale patto con la natura che tenga conto del nostro destino di mortali. Senza attribuire l’opportuna rilevanza alla materia di cui è fatto l’universo e allo scorrere del tempo, cui ogni essere vivente è soggetto, secondo l’autore non sarebbe possibile accedere al grande senso, al significato del tutto.

E davvero “l’assoluto, piccolo fiore” di Bonnefoy fiorisce nel disastro del contingente, tra la terra arsa e le nubi irraggiungibili, pronuncia fiero il suo “per sempre”, pur consapevole della cifra di effimero che lo contraddistingue. Il poeta si abbevera alla fonte del visibile e restituisce immagini di limpidezza, musicali, talvolta numinose; e noi lettori siamo chiamati a decifrare i segni sparsi come frammenti preziosi tra le pagine, come se partecipassimo anche noi al processo di riscoperta del legame tra vita e linguaggio o come se ricevessimo dalle mani dell’autore il segreto per cogliere la relazione tra le parole e le cose del mondo. Questo rapporto, incrinato costantemente nel quotidiano che svilisce la lingua, può essere rinnovato e rinvigorito solo attraverso la ricerca poetica, un tentativo altissimo di andare oltre ciò che appare, per afferrare quelle suggestioni in grado di svelare la pienezza dell’essere.

Se la soglia è un inganno, anche l’inganno può divenire soglia e garantire l’accesso ad altri mondi da immaginare e cui concedere credito, per mezzo della poesia. Mettendo in discussione la scrittura stessa, Bonnefoy coinvolge noi lettori in un metaforico viaggio di conoscenza, sollecitandoci alla responsabilità di una risposta che sia capace di farsi presenza, di riportare a una dimensione di autenticità le eterne questioni che ci tormentano, di trovare nella lacerazione della perdita l’attimo in cui ciò che è sparso può tornare a essere indivisibile.