Stella 111: il grande romanzo europeo della caduta del Muro

Stella 111 di Lutz Seiler è un romanzo-soglia sul crollo del Muro e la Berlino delle comuni sotterranee: storia di Carl, dei suoi genitori in fuga e di una generazione in cerca di casa e libertà. Un romanzo visionario che intreccia memoria, politica e poesia, diventando il ritratto di formazione della Generazione X europea, che risuona come un filo teso dall'Assel berlinese fino al Leoncavallo milanese.

Stella 111, Lutz Seiler, trad. it. Paola Slaviero, Utopia,  pp. 481, euro 22.00

Capita raramente di leggere un romanzo che appare immediatamente come uno spartiacque letterario tra un prima e un dopo. Un romanzo che ne contiene altri cento e che pure mantiene una sua intatta, coesa, potentissima, vena lirica e narrativa.

Allora lasciamoci trasportare dalla poetica prosa, è il caso di dirlo, di Lutz Seiler, tra i più rilevanti poeti e romanzieri europei di lingua tedesca, classe 1963, che pubblica Stern 111 nel 2020, ora finalmente anche nella preziosa traduzione di Paola Slaviero, per l’altrettanto preziosa Utopia editore, che non finiremo mai di ringraziare abbastanza.

Triplo movimento alla fine del mondo

Siamo intorno al 1989 del crollo del Muro di Berlino e del passaggio ai ‘90 della riunificazione tedesca. Carl Bischoff è un giovane studente universitario, nato il 1963 a Gera (Turingia, Repubblica Democratica Tedesca), come Lutz Seiler, richiamato alla sua piccola casa paterna, dai genitori che vogliono approfittare della caduta della cortina di ferro per abbandonare la Germania (orientale, ma non solo quella!), e fuggire verso occidente, l’Occidente estremo. Il momento storico sembra aver dato alla testa ai suoi genitori, che pure meritano una vita migliore.

Il figlio Carl è chiamato a essere la retroguardia, nel nome del padre e della madre che sono l’avanguardia di un mondo a venire, fuggendo dal piccolo mondo antico che hanno operosamente contribuito a edificare e in cui sono rimasti disciplinatamente ingabbiati per tutta la loro vita, fino alla fine di quel mondo. Siamo dinanzi a una sovversione dei rapporti intergenerazionali. Che non può reggere, non può durare. Così Carl prende la mitica Zhiguli del padre – una Fiat 124 prodotta a Togliattigrad – e comincia anch’egli il suo personale viaggio verso ovest. Mentre la radio Stella 111 sarà una meravigliosa madeleine di un tempo incompreso.

Ecco il doppio movimento verso occidente che smuove avanguardia e retroguardia. Un doppio movimento che diviene triplo, perché Carl è impegnato anche in una fuga da fermo, una fuga sul posto, un movimento introspettivo, in surplace, sul proprio mutamento esistenziale, affettivo, sociale, in definitiva poetico. Carl sarà uno zhiguliano a Berlino. L’aria della città rende liberi, ci ricorda sempre il motto medieval-weberiano, tanto più nei pressi dell’isola dei musei, al centro di un sottomondo di utopia pirata e muratoria, libera e comunarda.

Uno zhiguliano a Berlino, a Berlino!

Qui di fatto comincia quello che mi sentirei di definire, con una certa dose di azzardo, mi rendo conto, come il Grande Romanzo Europeo del passaggio di secolo e millennio che ancora mancava. O forse il Grande Romanzo di formazione della Generazione X europea, ecco che cos’è Stella 111. Anche se, a rigor di logica, l’Autore è in bilico sulla soglia estrema della generazione precedente, quella dei Boomer. Poi lo si può definire a piacimento come romanzo storico, esistenziale, sociale, politico, urbanistico, d’amore. Tutto questo e molto di più, in una lettura entusiasmante, nella quale mi sono ritrovato, anche dal punto di vista esistenziale. Poiché tra il 1989 e il 1991, come quasi tutti i ventenni europei di quella rivoluzione europea in atto, a ridosso del bicentenario parigino 1789, passammo le nostre estati a Berlino, in quegli scantinati tracimanti di vita, musica, danze, alcool, fumo, soprattutto nella parte orientale.

Come l’Assel, dove Carl troverà tutto quello di cui avrà bisogno: uno spazio sociale comune e accogliente, che è rifugio sotterraneo, sottomarino, un pontone tra l’era glaciale e la comune. Diverrà un caffè dei lavoratori, un bar e mescita, l’epicentro di una contro-città liberata, underground, ramificata, abitata dalla vita che ascolta le voci dei morti, seppelliti in una voragine ancora aperta, e che attrae esseri umani liberi e autonomi, dà loro ospitalità, assegna case, difende una solidarietà intergenerazionale.

La libertà trova i suoi discepoli, sempre e ovunque, capisci cosa intendo?

L’invincibile triplice A dell’Aguerrilla sotterranea

È l’aguerrilla sotterranea, dell’invincibile triplice A dell’Assel, che poi deriva il suo nome dagli scarafaggi che vi pullulano. Anfang, le fatiche dell’inizio, dell’immaginare ancora una volta Sisifo felice, diremmo noi. Arbeit e la dignità del lavoro, del muratore e di quello letterario, della transizione verso l’esistenza poetica di Carl, un percorso di crescita, maturazione, superamento. L’Aguerrilla che sono gli abitanti, con la bandiera della A cerchiata, dell’azione autonoma evocata dalle radio libere, e accanto quella dei pirati. Ancora oggi, che diviene quella di One Piece con il teschio sorridente e il suo cappello di paglia, della rivoluzione globale della Generazione Z. Eccoci di nuovo qui, nei passaggi intergenerazionali!

E l’intermediario verso questa esistenza collettiva di Carl, di nuove amorevoli amicizie è il Pastore Hoffi. Una sorta di pacificato e autorevole leader dell’Assel, che per via del suo poncho fa pensare al Peppino Garibaldi rivoluzionario di tutti i mondi possibili, per la Repubblica universale, al Michail Bakunin dalla anarchica capigliatura ammaliatrice, a un Don Letts, per l’andatura appena molleggiata, come a noi traspare da quella celebre copertina di Super Black Market Clash. Con accanto la sua amata capra Dodo, che ha al collo gli occhiali da saldatore donati da quelli del Tacheles, altro spazio sociale e artistico vicino, e capace tanto di produrre un miracoloso latte setoso, quanto di librarsi, liberarsi in volo, a mezz’aria e oltre. E Hoffi è talmente saggio che dispensa consigli tuttora validi. Le case e gli spazi sociali che la comune gestisce non sono occupati, sono abitati, appartengono a chi li abita. E, avendo letto questo romanzo nell’estate dell’infame sgombero del Leoncavallo di Milano, del Leo, del Leonka, che era già uno Spazio Pubblico Autogestito, mi verrebbe da consigliare di cambiare il nome dei CSOA – Centri Sociali Occupati e Autogestiti – in CASA – Centri Autogestiti Sociali e Abitati – oggi che il problema casa è il problema di queste nostre città da liberare. Giù le mani dalla città. Ancora una volta.

Mentre seguiamo Carl perso tra l’amore silente per Ragna, col suo perenne colbacco e i suoi vestiti sovietici, di feltro, così come quello invece esplicitato per la luminosa e ombrosa Effi, fratturata dalla sua irreparabile tragedia di figlia, che per Carl comporterà anche una sorta di divenire padre altrui. Con l’Assel che diviene rifugio per le molte e i molti: naturalmente arrivavano anche relitti alla deriva, avventurieri, spacconi, scavezzacollo, adolescenti scappati di casa e tipi techno, buoni a nulla e fuochi fatui dei cosiddetti nuovi tempi.

Facciata esterna del centro sociale Leoncavallo in via Antoine Watteau, 7, 20125 Milano fotografato nel gennaio 2025 da Marmolada48

Leo, Leonka, ti ricordi Fuoco Fatuo? Leo, è questo che siamo (diventati)? (in sottofondo i nostri Massimo Volume degli anni Novanta, sempre).

D’altro canto i genitori di Carl si ricongiungono alla loro giovinezza musicale accantonata, sospesa, taciuta. Senza anticipare nulla, forse tutte e tutti finiranno con il concordare con un motto comune che comincia a trasparire: avevamo lo stesso senso del ritmo, direi, era la base. È la base di tutto, Carl. La musica e il ridere.

E di musica, cinema, poesia e molto altro tracima questo romanzo, dal Nick Cave con i suoi Bad Seeds di the weeping song a Milva e Fassbinder, dagli amati poeti francesi, Baudelaire e Lautréamont, a Anna Seghers alla luce verde di Gatsby, da Mad Max ai Mutoid, da Sylvia Plath a Gaston Bachelard.

Per concludere, se volessimo trovare dei paragoni possibili con questo testo meraviglioso, bisognerebbe abbandonare non solo l’Italia, ma anche il vecchio Continente, e spostarsi ancora una volta oltre Oceano, dalle parti di Jonathan Lethem, non tanto quello della Brooklyn di The Fortress of Solitude, quanto di quella mirabolante accolita di Chronic City, anche lì tra case occupate – abitate, pardon – critici musicali, artisti troppo post-moderni e una comparsata di Werner Herzog che tiene unito il filo contro-culturale euro-atlantico.

Per questo servirebbero altre recensioni, altre letture di Stella 111. Le faremo, entrambe. Intanto diffondiamo il verbo di questo romanzo, andandocene in giro a zonzo, ma concentrati, per le nostre città, come sovversivi urbanisti situazionali, ora che sappiamo che al numero 21 della Oranienburger Strasse di Berlino si trova solo una sorta di acquario, svuotato di tutto, anche dei suoi sotterranei. Ma nell’underground l’aguerilla trama per tornare a liberare case, spazi sociali, città, vita in comune.

PS: Mi permetto di aggiungere un ringraziamento a Roberta De Marchis che cura l’ufficio stampa anche di Utopia editore e conosco virtualmente da tempo, per avermi messo a conoscenza di questo capolavoro. Per aver pensato a me. Il prezioso, ancora una volta, e faticoso, autonomo, indipendente lavoro editoriale, “lavoro culturale”, necessita di essere riconosciuto, in adeguate forme materiali, che spesso esulano dalle possibilità di noialtri operatori “del settore”, per questo qui ci si limita a quelle immateriali, ancor più quando mette in moto amichevoli risonanze comuni, riallaccia fili dispersi di passioni e ragionamenti condivisi, rintraccia dimenticati sentieri battuti insieme e in definitiva mai interrotti.