Straordinarie dissipazioni per libri straordinari

Thomas Wolfe, Il ritorno (a cura di Francesco Cappellini), Via del vento edizioni, pp. 44, € 4,00 stampa

di ELIO GRASSO

Thomas Wolfe, nato in una cittadina del North Carolina il 3 ottobre 1900, dopo varie vicissitudini familiari si ritrova nel 1929 a New York, da Scribner’s, con centinaia di pagine scritte di un incontaminato delirio creativo. In quegli uffici un certo Maxwell Perkins, famoso curatore editoriale, riesce a dirottare la smodatezza fluviale di quel ragazzo verso un’opera rivelatrice di grande poesia e sommo talento. O lost, come titolava il manoscritto originale, diventò Look Homeward, Angel. Non senza scontri e attraversamenti feroci dentro l’aggrovigliata foresta dell’editing. E dire che Perkins aveva già a che fare con Scott Fitzgerald e Hemingway, quindi abituato a sciagure, tempeste e derive alcoliche.

Quest’uomo pazientissimo e moralmente inattaccabile fu la fortuna di Wolfe. Rasentando il fallimento a ogni prova, editoriale e esistenziale, nulla riuscì a infrangere la potenza delle opere che da lì in poi uscirono dalle mani dei due sodali e dalla tipografia di Scribner’s. Le strade di New York, Brooklyn, hanno un prezzo da chiedere al giovane Thomas, la cui carriera si sviluppa attraverso ascese e cadute mefistofeliche. È un’epoca piena di business e di “adorabili” romanzi costruiti sull’orlo di vite allo sbando e di guerre mondiali, di inopinate partenze e astuti ritorni.

Straordinarie dissipazioni lasciano appena il tempo di scrivere libri straordinari, e altrettanti sogni che hanno foraggiato per decenni le major hollywoodiane, fra dignità contrastate, eroismi, vessazioni e scoppi di pianti cinematografici e pubblicistici. Per molti critici la prima versione del romanzo di Wolfe resta superiore a quella poi data alle stampe con le sforbiciate di Perkins. Probabilmente è vero. Ma a distanza di un secolo le cose cambiano, nella testa degli uomini e in letteratura. I miti americani, poi, quando varcano l’Oceano, esaltano ammirazioni e ritoccano vicende, rinfrescano guaiti e raffreddano spiriti bollenti. In un recente film di buon successo, Genius, troviamo tutti i lamenti e le disperazioni intercorsi fra lo scrittore e l’amabile Perkins. Le percussioni descrittive attuate da Wolfe si ribaltano nella realtà, lo sfoggio di un’epica tirannica ha il suo contraltare nei lampi lirici che affollano i romanzi e i racconti. E con il rischio di un’enfasi che genera disaccordi in critica e pubblico. Ma sono gli impulsi dell’uomo, la sua carica, a scoperchiare quel mito americano a lungo ricercato, forse mai raggiunto.

La poesia per lui è il fatale viaggio che trasporta dalla provincia più profonda alle metropoli fondate sulle due coste americane. È la fedeltà al tragico ma esaltante transito nel paesaggio, lo stesso che fecondò gran parte degli autori della Beat Generation.

L’odissea generazionale di costoro ha avuto il suo pioniere, in misura maggiore rispetto ai pur osannati poeti europei. La forsennata vocazione poetica di Wolfe si riversò in Kerouac e nei compagni dell’avventura americana. I tre racconti, tradotti mirabilmente da Francesco Cappellini e inediti in Italia, testimoniano questo rapporto stretto. Wolfe, soprattutto in Prologo all’America (1938), si lancia in una vera e propria elegia dedicata agli USA, un vertiginoso mantra alcolico per la brillantezza che lo avvicina a una Vegas notturna e per l’ingenuità copiosa avvertita soprattutto da noi europei, figli di rivoluzionari sanguinari. Il refreshing del salmodiante Dove andremo, adesso, e che faremo? dinanzi alle capitali Washington, Manhattan, Boston, Chicago, alle Montagne Rocciose e infine Hollywood, trasporta nelle costanti stilistiche dello scrittore. Vi appare il virus micidiale di cui è sempre stato preda Thomas Wolfe, fino a portarlo alla morte, poiché le strutture dell’immaginazione hanno il loro limite.

Soprattutto il limite della coscienza fu il transito a lui fatale, già dai tempi in cui balzava sui tavoli se il caro amico della Scribner’s gli tagliava una sola virgola. Sono racconti di stratificato innamoramento per la strada, e affilata ironia verso la folla di personaggi barricati negli uffici degli alti palazzi. Una summa “rapsodica” che influenzò Kerouac (& Soci), giudiziosamente vanitoso come dimostra il suo Vanity of Duluoz. Si attendono altrettanto “frivole” eccitazioni da molti lettori, quantomeno dai gaudenti seguaci di Tom Waits.

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