Attenzione: le pagine di Suzuki Izumi brillano di una luce irriducibile e, a seconda di come questa luce illuminerà la vostra esperienza di lettura, anche la loro fonte troverà probabilmente una collocazione assai diversa nel vostro immaginario. Ad esempio, accanto a James Tiptree Jr. o a Octavia E. Butler, tra le scrittrici SF che hanno anticipato le tematiche cyberpunk. Oppure, a precorrere certa letteratura esistenziale e generazionale a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 – per non fare nomi: il Haruki Murakami di Norwegian Wood. O, infine, di risuonare, con alcuni decenni di anticipo, come una voce perfettamente inattuale e contemporanea, di cui oggi mettersi immediatamente in ascolto, una volta accertata la mancanza di connessioni che ci legavano effettivamente al nostro presente, e di cui eravamo solo vagamente consapevoli.
Quella di Suzuki Izumi è, da un punto di vista autoriale, una fantascienza soft con particolari risvolti sovversivi. Ad esempio, quelli di un corpo richiuso in un’identità femminile che non si è scelto e di cui si farebbe volentieri a meno: «Non sono né uomo né donna, non ho bisogno di un genere e voglio andare lontano da sola». Il genere si rivela centrale ma anche irrilevante per questa autrice che, senza retorica o ideologismi, dichiara che la fantascienza invece c’entra eccome, perché «C’è qualcosa che non va nella nostra società attuale e non sopporto la fantascienza scritta da persone che non lo capiscono». Da questa angolatura, è ripartita, una decina di anni fa, la riscoperta di un’autrice dimenticata in Giappone e praticamente sconosciuta al lettore occidentale. Non è un caso, insomma, se nel mondo anglosassone i suoi libri escono ora per una editrice di saggistica radicale come la britannica Verso. In Italia l’operazione è stata presa in mano, meritoriamente, da ADD Editore di Torino.
Suzuki Izumi racconta gli anni ’80 come un dopobomba e come un tempo fuori di sesto, dove nessuno si aspettava più astronavi né automobili volanti, meno che meno una salvezza tecnologica. Li racconta con lucidità, attraverso la lente dell’ umorismo, recuperando i clichè della moglie strega (“Dolci parole”) o della schizofrenica (“La memoria dell’acqua”), e gli strumenti del distanziamento emotivo, immaginando le possibili interferenze tra alieni e telepati (“Non ti dimenticherò”) o tra terrestri e clandestini ultracentenari (nel racconto che dà il nome alla raccolta, “Hit parade di lacrime”). Lei stessa una volta ha descritto il suo processo di scrittura semplicemente come: “Trasformo i miei sogni in storie” ma ha raccontato i suoi incubi quasi sempre con implicazioni non troppo discoste dalla vita quotidiana della sua generazione.
Il tropo del genere fantascientifico spunta a sorpresa tra le righe di questi undici racconti, tra una distorsione temporale e un futuro distopico eretto sulle rovine di un inverno termonucleare di cui non vale neppure la pena rievocare la cronaca. Il tempo nuovo ha portato infatti tutto in superficie e ciò che sembra davvero contare ora, per entrare in sintonia con questa nuova epoca, è il citazionismo pop, che ti investe con una raffica ossessiva e imprevista di titoli da hit parade, con i nomi delle band e delle droghe, e con la deriva linguistica dello slang che, detto per inciso, costringe i traduttori a lunghe note per descrivere lo slalom compiuto tra il giapponese e pidgin immaginario della scrittrice.
Suzuki Izumi (1949-1986), morta suicida a 36 anni, prima di diventare una scrittrice, è stata una un’attrice pinku eiga – il cinema erotico giapponese – una modella di successo e un’icona d’avanguardia del suo tempo assieme al partner, il sassofonista Kaoru Abe. Le sue storie mettono radici nella controcultura di allora, con una eco anti-autoritaria che si irraggia dal sospetto per le istituzioni – familiari, psichiatriche, politiche – di una società patriarcale e capitalista come quella giapponese. Ma, al di là di tutto ciò, la raccolta resta soprattutto un invito aperto a esplorare la complessità delle relazioni e delle identità umane, senza mai perdere la leggerezza.