Tutto è altrove

Iain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, Meltemi, pp. 180, euro 15,00 stampa

La questione migratoria oggi sembra essere centrale, addirittura inedita nelle sue proporzioni. Siamo sommersi da un lessico emergenziale e su quotidiani e social media viene usata l’espressione “sostituzione etnica”. In questo scenario, la casa editrice Meltemi ristampa questo Paesaggi migratori (Migrancy, Culture, Identity, 1994) di Iain Chambers, studioso di fenomeni culturali e autore, tra l’altro, del fondamentale Ritmi urbani. Pop music e cultura di massa. Il libro appare nella collana di sociologia diretta da Massimiliano Guareschi, in compagnia dell’ormai classico Sottocultura di Dick Hebdige, con il quale questo volume dialoga.

Ogni singola frase di questo testo è cesellata con precisione chirurgica nel tentativo di produrre significati: nulla lascia indifferenti, è un movimento serrato che toglie il fiato nel momento stesso in cui fa letteralmente respirare idee, immaginari, accostamenti impensati. In sei capitoli – alcuni brevi e fendenti come schegge – l’autore mette a tema identità e difformità, omogeneità ed eterogeneità, spesso assecondando figure della deriva, dell’incomponibile frammentarietà delle esperienze culturali contemporanee, interrogando pratiche e luoghi piuttosto comuni e condivisi – la scrittura, la musica, le mappe, il ruolo e la storia del mare – restituendocele nella prospettiva dello sradicamento e del movimento, perché nulla è mai stato fermo.

Nelle potenti Note su una modernità migrante – apposte a questa edizione come prefazione – Chambers spiega quanto “questo testo sia ancora pertinente alla congiuntura crudele del presente”. E nel 1994 come oggi, occorre riconoscere che binarismi quali noi/loro o centro/periferia, hanno smesso di avere senso poiché, con le migrazioni, ci rendiamo conto che non solo l’Occidente è nel Terzo mondo (come effetto di lungo periodo del colonialismo europeo), ma che il Terzo mondo è qui, dove produce un’interruzione della presunta omogeneità della nostra cultura. Del resto è solo attraverso questa contaminazione che si creano stili e significati nuovi, di cui, per esempio, la musica – il Rap o il Reggae e la loro miriade di articolazioni locali – ne portano traccia evidente. La modernità non è il frutto del capitalismo e del progresso europeo, o meglio, essi sono anche il frutto della schiavitù, della cancellazione dei colonizzati. La modernità, insomma, è coloniale ed è l’esito del saccheggio imperiale del Globo, che ha reso possibile la sua storia di trionfo tecnologico.

Ed è un po’ come se tutta l’eredità del post-strutturalismo francese, che predicava discontinuità, elogio di soggettività marginalizzate e/o nomadi, trovi il suo compimento felice nelle pratiche sociali interconnesse – la musica, i suoi stili e le sue tecnologie, la moda, l’architettura – nelle metropoli globali: Lagos, Londra, Napoli. La figura del marginale (e del migrante), ammonisce l’autore, è tanto sconvolgente perché fa emergere al centro ciò che prima era periferico: il suo movimento genera incontri, scontri e metamorfosi che chiamano in causa le nostre tesse esperienze. Ci ritroviamo interrogati da un altrove e per rispondere dobbiamo utilizzare nuove inflessioni della nostra stessa lingua e dei nostri linguaggi. Qualsiasi tipo di rassicurante stabilità è illusoria, è necessario fare i conti con l’unica esperienza possibile, quella dell’ibridazione, per farla finita con l’esaltazione di origini che si rivelano inautentiche.

Infatti, in un’epoca nella quale i flussi elettronici stano letteralmente spappolando qualsiasi logica di continuità e regolarità, l’inganno paradossale è proprio quello dell’autenticità che Chambers addita come moloch della cultura contemporanea. Alla base della vita sulla Terra c’è la traduzione – o i processi traduttivi metaforicamente intesi – e non ci può essere nulla di autentico né di originale se non il frutto di interessanti mescolamenti. Dunque, il paesaggio migratorio non è l’eccezione ma la regola, il paradigma: il ritorno a qualsivoglia origine è, di fatto, impossibile. Così, sangue, appartenenza, confini e proprietà ci appaiono improvvisamente dispositivi retorici obsoleti, vecchi arnesi ormai inutilizzabili.

È un pensiero critico felice e accattivate, quello di Chambers: a ogni riga, ad ogni pagina riempiamo la nostra cassetta degli attrezzi per resistere ed essere pronti al futuro anteriore della migrazione, adesso, proprio qui, proprio ora, nel Paese tutto immerso nel Mediterraneo che torna a farsi sedurre da porti chiusi, inquietanti forme di neo nazionalismo e tradizioni inventate, tristemente incapace di ritrovare nelle sue rovine lo slancio per scrivere una storia nuova.