Valerio Renzi / Le radici secche della destra

Valerio Renzi, Le radici profonde. La destra italiana e la questione culturale, Fandango Libri, pp. 192, euro 16,50 stampa, euro 9,99 epub

Valerio Renzi è il curatore di uno dei più interessanti e approfonditi osservatori on line sulla galassia neofascista, la newsletter S’è destra la cui lettura consigliamo vivamente a chiunque voglia essere informato sulle sempre più inquietanti derive postfasciste nazionali e internazionali. Del suo brillante libro del 2021, Fascismo mainstream, anche questo pubblicato da Fandango, ci siamo già occupati a suo tempo su Carmilla, un testo che ci metteva in guardia contro l’ormai evanescente e quasi ectoplasmatico concetto di democrazia, che in Italia e nel mondo occidentale ha ormai sostituito la democrazia vera, e le ogni giorno più fosche prospettive totalitarie nella conclamata crisi del modello neoliberista, anticipando – punto per punto, come regolarmente è avvenuto pochi mesi dopo l’uscita del volume – l’avvento al potere nel nostro paese di quel fascismo mainstream da decenni ormai sdoganato, infiltrato nelle istituzioni e reso tollerabile e persino attraente alle masse con la complicità del suo principale alleato e fomentatore, una sinistra insulsa e imbelle. Oggi, a disgrazia ormai avvenuta e consolidata, il volume appena uscito analizza le strategie attraverso le quali gli esponenti di un governo non più di centro-destra ma di destra tout court, sostenuto da un parlamento in cui hanno la maggioranza relativa, stiano cercando di stabilire un canone posticcio della cultura nazionale, una sintesi raffazzonata che, nella confusione generale, conceda sempre più spazio ai nomi, ai pretesi valori e ai riferimenti storici della loro parte politica in una sorta di “revisionismo permanente”. L’obbiettivo della guerra culturale per l’egemonia reazionaria di questo governo sarebbe il comminare un rifiorito MinCulPop alla Repubblica nata dalla Resistenza.

Il titolo Le radici profonde, si riferisce ovviamente al travisato e abusato classico fantasy Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, assunto impropriamente al ruolo di livre de chevet della destra neofascista italiana fino dagli anni ’70 (quando altrove era stato, nel caso, apprezzato dagli hippies e dalla controcultura underground statunitense e citato in canzoni di gruppi rock come Led Zeppelin, Black Sabbath, Huriah Heep e Rush: un immaginario tutt’altro che destrorso…). In particolare, la citazione è un verso della poesia che uno dei protagonisti dell’epopea tolkieniana, Bilbo Baggins, dedica ad Aragorn, re spodestato che tornerà sul trono alla fine della storia: “Le radici profonde non gelano. Dalle ceneri rinascerà un fuoco” – implicita la distorsione revanchista nell’interpretazione degli “esuli in patria” ultradestri in cui le radici sono ovviamente quelle del fascismo e/o della presunta tradizione (termine che mi rifiuto di scrivere con la T maiuscola come fanno sempre loro…) – una sorta di mitologica e presunta philosophia perennis teorizzata da pensatori in linea con la moda esoterica del primo Novecento, come René Guénon, Frithjof Schuon e Ananda Coomaraswamy, o da poligrafi mestatori come Julius Evola.

Di fatto, accenna Renzi, su internet il motto viene spesso attribuito addirittura a Mussolini (il povero Tolkien si sarà rivoltato nella tomba…). Insomma è il simbolo di quelle prospettive antimoderne agitate dagli ex Nipoti della Lupa travestiti da Hobbit: dai Campi Hobbit, festival neofascisti organizzati dall’ala rautiana del Fronte della Gioventù nel 1977 e nel 1981 (e bieca scopiazzatura in nero di Woodstock o del Festival del Proletariato Giovanile al Parco Lambro); alla Compagnia dell’Anello e agli altri penosi gruppi di “rock identitario” o “musica alternativa” (anche qui si scopiazza – male – il rock serio e lo si inverte di segno…); fino alle ostentate predilezioni bibliofile della Premier, sempre pronta ad accorrere al suono del Corno di Boromir capitombolando per Colle Oppio ad onta di Atreju, nome usurpato stavolta non a Tolkien ma all’altrettanto incolpevole Michael Ende di un altro classico fantasy, La storia infinita.

Come ben spiega Renzi il fantasy e nella fattispecie Tolkien si presta facilmente, con non eccessive forzature, a rendere pop “la solita solfa evoliana da cui non riusciranno mai davvero ad affrancarsi”. Il pastiche culturale della destra – in linea con il pastiche pseudo-filosofico-esoterico del loro guru Evola – usa l’epica tolkieniana mescolando in chiave postmoderna rune e asce bipenni, cristianesimo celtico e paganesimo neonazista: “L’operazione Tolkien ha così due facce: da una parte quella dell’appropriazione di un materiale culturale non proprio, dall’altra quella di traghettare verso il futuro il vecchio armamentario ideologico proveniente dal dopoguerra”. L’esempio più eclatante di questo pastiche che dovrebbe essere l’humus a cui attingono le “radici profonde” è rappresentato dall’inno del Fronte della Gioventù, oggi ereditato da fratelli (e sorelle) d’Italia, Il domani ci appartiene, canzone tratta dal film Cabaret dove viene intonata (non in tedesco ma in inglese, Tomorrow Belongs to Me) da un giovanissimo membro della Hitler Jugend: un finto lied nazista in realtà scritto per un film americano da due compositori, John Kander e Fred Ebb, ebrei e antifascisti.

Ricostituita intorno al tradizionalismo integrale di Evola, a base di improbabili rivolte contro il mondo moderno e di fantini che cavalcano tigri in mezzo alle rovine, più nazista che fascista ed elitariamente iniziatica, la cultura della destra radicale, sclerotizzata intorno al culto di pochi scrittori e intellettuali, sempre gli stessi e sempre affrontati in toni agiografici e mai analitici – i collaborazionisti francesi, Pierre Drieu La Rochelle, Robert Brasillach, Louis-Ferdinand Céline, Lucien Rebatet; i rivoluzionario-conservatori tedeschi, Ernst Jünger, Oswald Spengler, Ernst von Salomon; il dannunziano giapponese Yukio Mishima; i simpatizzanti delle Guardie di Ferro rumene, Mircea Eliade, Emil Cioran e il loro guru Corneliu Zelea Codreanu; un unico statunitense, Ezra Pound; qualche tradizionalista, soprattutto il pupillo di Evola, Adriano Romualdi; pochi fascisti o para-fascisti (più Marinetti che Gentile, D’Annunzio o Malaparte); non molto altro… – viene poi svecchiata in parte, si tratta soprattutto di cosmesi, dalla nouvelle droite francese di Alain de Benoist, negli anni ’70-’80, con la lettura distorta e strumentale di Antonio Gramsci (emendata da ogni riferimento alla lotta di classe) e il concetto di “metapolitica” che rimpiazza l’egemonia culturale gramsciana e si insinua nelle aree lasciate sguarnite dal predominio della sinistra (il fantasy è una di queste). Tangentopoli compie il miracolo di proiettare Allenza Nazionale – orfana del crollo del partito neofascista storico, il MSI, e traumatizzata dalla svolta “badogliana” di Gianfranco Fini a Fiuggi ma in compenso quasi estranea, per forza di cose, ai processi per corruzione in corso – nello spazio politico dove Berlusconi la raccoglie e la sdogana, pur imponendo ai vari gerarchetti il programma economico-sociale neoliberale del cesarismo e del populismo che gli è proprio. Dagli anni ’90 inizia il Kampfzeit  revisionista che, con il sostegno di giornalisti e intellettuali di estrazione liberale complici e alleati nell’offensiva feroce contro l’egualitarismo e le conquiste sociali del boom economico, porta all’equiparazione di fascismo (sempre più rivalutato, con la dignità dei “ragazzi di Salò”) e comunismo (sempre più vilipeso e sporcato, con la memoria della Resistenza), alla propria autoassoluzione da ogni connivenza  nella “strategia della tensione” e al parallelo martirologio (stessa lagna di quello per i fucilati di Salò) come principali vittime degli “anni di piombo”: si alza così progressivamente la posta in gioco, fino all’istituzione ufficiale del Giorno del Ricordo, celebrazione che strumentalizza le vittime delle cosiddette foibe per controbilanciare il Giorno della Memoria degli ebrei e il Giorno della Liberazione degli antifascisti. Anche i fasci hanno avuto il loro contentino e possono circolare impunemente per le città italiane con il braccio alzato nel saluto romano – il 10 febbraio e magari il 22 ottobre e, se continua così, sempre, tutte le volte che vorranno. Ma la vittoria del 2022, secondo Renzi, rivela anche dei punti “metapoliticamente” deboli: “ha mostrato con chiarezza tre cose: la mancanza di un personale di area in grado di dare un segno alle politiche culturali; la difficoltà della destra a relazionarsi con la cultura di massa e con i valori che essa esprime; l’incapacità di esprimere un profilo culturale valoriale autonomo, limitando la propria ambizione a escludere dai finanziamenti e gli spazi culturali tutto quello che è percepito come contemporaneo o sperimentale”.

Ormai da anni, la crisi del populismo berlusconiano e l’emersione dei successivi governi tecnici e delle larghe intese con i loro nuovi miti di (pretesa) austerità, competenza, rigore, parsimonia, ha portato la destra a millantare un valico ulteriore, incarnarnando il massimo rafforzamento dell’ordine costituito: non più la logica neoliberale della libido, del desiderio e del piacere (l’aspetto superficialmente “simpatico” del berlusconismo), ma il divieto, la negazione, l’imposizione del limite, l’impedimento. Non più “nani e ballerine” ma un’idea di normalizzazione e pulizia drastica: contro gli immigrati, le donne troppo indipendenti, le diversità, i centri sociali, le manifestazioni di protesta. Il presupposto di quello che i nazisti definivano Gleichschaltung, la “messa al passo”, l’allineamento, l’uniformazione. La libertà della maggioranza contro le minoranze, dei “bempensanti” contro i “liberi pensatori”: una Civitas Dei opposta a una Civitas diaboli fatta di periferie sociali e geografiche in cui il panico morale va alimentato inventandosi demoni popolari da reprimere e bravi cittadini arrabbiati da proteggere.

Chissà che l’ultima barricata contro l’indottrinamento di questa visione prescrittiva e normativa imposta dal governo – confermata anche dalla presentazione del testo unico per la scuola di Valditara, che recupera il latino e la scuola classista presessantottina ed esalta identità nazionale, patriottismo e colonialismo – non sia forse il mondo queer e meticcio, autenticamente pop, cioè volgare, cioè popolare, del Festival di Sanremo – nazionalpopolare non secondo Gramsci ma secondo Pippo Baudo – estrema e improbabile sacca di resistenza di un inconsapevole marxismo culturale in cui ingovernabili lumpen intellettuali, minoranza rumorosa, sanno ancora spendere qualche timida parola contro la guerra o per il salvataggio dei migranti in mare, parole certo banali ma comprensibili e più sensate dei proclami istituzionali, che possano arrivare ai ragazzi attraverso l’ecosistema digitale. Ribellione, disobbedienza, sabotaggio, in veste camp magari. Sarà forse Elodie – borgatara, proletaria, meticcia, queer, erotica, esotica – la nuova eroina della lotta, ancora tutta da combattere, contro la gabbia opprimente del postfascismo? Certo più lei di Elly Schlein.