Pensiamo al surrealismo? Sarebbe un errore, nella poesia di Alberto Pellegatta la realtà invade le parole abbattendo il realismo e tanti altri -ismi (più o meno surmoltiplicati) inventati dagli umani – poeti e scrittori di vario genere. Una realtà talmente robusta da rendere le cose protagoniste nei versi, assumendosi ruoli importanti, aperte al dialogo che più o meno faticosamente noi che leggiamo e il poeta che scrive tentiamo di tenere sveglio. È questo connubio tra policromia del senso e ingegnose dinamiche del fantastico che l’analogia ha i suoi alti e bassi, e deliri controllati abilmente da Pellegatta. Con quella arguta ragione che già ci aveva sorpreso (e non poco) nel suo precedente libro, Ipotesi di felicità. Una leggera perversione che faceva venire in mente più il nostro Ottiero Ottieri che il praghese Kafka. Perché le anomalie in questa poesia (e nelle oscillanti prose inserite a intervalli precisi) sono concrete più che un tavolo da cucina, più che un letto sfatto la mattina. Se Lynch (il regista) si prende la libertà di mettere conigli bipedi e parlanti in un suo film, essendone lui il generatore, Pellegatta (il poeta) si prende la libertà di consentire “problemi di cuore” agli aceri e “vanità” alle acque molto intraprendenti. E, con amabile vezzo, s’inventa un Raboni che spiega alla madre cosa il figlio ha sbagliato nel suo libro. Persone che non ci sono più varcano la condizione di fantasmi e permettono al poeta di ricevere sorrisi da una ragazza sconosciuta tornando a casa sul tram. Quale realtà può essere più protagonista di questa?
Libro concreto dunque, Piccola estate ricorda il tempo in cui non è più estate e non è ancora autunno secondo il significato di una parola spagnola. Un tempo che verosimilmente risulta abitato da leggende speranzose, fors’anche disperazioni familiari e ritorni andati male. Le cose, protagoniste come dicevamo, hanno pensieri più lucidi degli umani, perfino i rubinetti sognano il mare dentro città capaci di sognare la pioggia. La mente di Pellegatta vede tutto questo grazie al suo modo di comporre la poesia-documento piena di contrasti e modalità prosodiche variatissime, metriche sul punto di esplodere ma pur sempre tenute al guinzaglio. Non esiste tatto in questo libro, ma la concretezza necessaria a vivere per lungo tempo le impressioni – al netto di un controllo che necessita di ricognizione critica e sensibilità.
Così è possibile convincersi che Piccola estate sia libro di poesia assai maggiore di quanto il mercato nazionale offre in questo mezzo termine del secondo decennio. Alla radice del tempo nostro manca qualcosa che riguarda il diritto e l’estetica, si vedono frivolezze esistenziali e contenuti latitanti in poesia. Pellegatta trasforma in necessaria la rivolta delle cose nel pieno della realtà che – pare ormai chiaro – prende il sopravvento sull’umano. E lo lascia lì, stravolto. Sempre più lontano dalla “parola che sei nei cieli pericolante”.