August Strindberg / L’ultimo romanzo

August Strindberg, Il capro espiatorio, tr. Franco Perrelli, Carbonio Editore, pp. 164, euro 15,00 stampa

Continua la meritoria riproposta da parte di Carbonio Editore di testi dimenticati o trascurati dall’editoria italiana e che tuttavia si ritagliano un ruolo tutt’altro che secondario nella nomenclatura di un canone (o di un controcanone) del moderno. August Strindberg, in particolare, appare per la terza volta nella collana “Origine”, in una sequenza che comprende anche altri autori scandinavi (i danesi J. P. Jacobsen e Johannes V. Jensen, oltre alla peculiare versione islandese del Dracula di Bram Stoker). Il capro espiatorio (1907) è un romanzo breve che appartiene all’ultima fase creativa dell’autore svedese, con cui si conclude quella “sorta di trilogia narrativa slegata”, come la definisce Franco Perrelli, curatore e ottimo traduttore di questo volume, nell’introduzione che riprende e condensa quella dell’edizione apparsa nel 1987 per Sugarco, sempre con la sua traduzione, ma con il titolo meno azzeccato La vittima: una sequenza iniziata con Solo (1903) e continuata con La festa del coronamento (1906), entrambi anch’essi ripubblicati da Carbonio.

Il capro espiatorio presenta numerose caratteristiche dell’ultimo Strindberg, in cui si ricapitolano molte delle sue fasi, che riaffiorano qua e là come sorgenti carsiche, senza assumere più quella posizione di centralità che avevano rivestito nei decenni precedenti: così è per l’ossessione della catastrofe economica, per il tema della “guerra dei cervelli”, richiamato dal curatore a proposito dell’espressione di “suicidio psichico” che ricorre a un certo punto del romanzo, oppure per quello ancora più caratteristico dell’altra guerra che Strindberg condusse nei suoi libri: quella dei “sessi”, e che qui si ripresenta nel lungo episodio della passeggiata del protagonista, Libotz, con Karin, sua fidanzata per una brevissima stagione, in cui la misoginia dell’autore svedese emerge prepotente con i suoi sintomi tipici, il senso di inadeguatezza dell’uomo rispetto all’imprevedibilità femminile, l’incomunicabilità tra esseri che sembrano appartenere a specie diverse, la gelosia divorante e cieca. Proiezioni di un io che cerca di rappresentare la propria vertigine di fronte a ciò che sfugge alle categorie della ragione, avvertite come attributi del maschile.

Tutto ciò si riassume, in una specie di compendio sintetico e tanto più efficace nell’incontro con un cliente che si rivolge a Libotz (avvocato di professione) per una richiesta di divorzio. In questa scena, così come in altri passi del romanzo, gli incubi di Strindberg sono condensati e rappresentati in forma tanto elementare da non rappresentare più una minaccia, ma piuttosto un distaccato esempio da manuale che finisce per essere un esorcismo.

Allo stesso modo gli spigoli più acuti del carattere della prosa strindbergiana, i tratti tematici più indigesti, le valenze che nelle opere dei primi anni acquistano carattere anche repulsivo, si smorzano in una composta accettazione dell’esistente, in una pacificazione dei contrasti che conferisce alla scrittura un carattere imperturbabile (così come imperturbabile è il protagonista di questo romanzo di fronte agli inevitabili rovesci della vita) e che fa virare le personalità complesse e lacerate dell’immaginario dell’autore verso una sponda meno tormentosa del grande fiume dell’esistenza, spostando il baricentro dell’io nella direzione quasi astratta di una spiritualità irrelata. Anche se si tratta, a ben vedere, di una spiritualità senza mistica, fatta di atmosfere immerse in un numinoso sul quale non aleggia alcun disegno divino, ma solo un caso, capriccioso e cieco, e tuttavia capace di forgiare ineluttabilmente i destini umani.

Contro questa indifferenza celeste beffarda e maligna Strindberg ha lottato tutta la vita, e ora finisce per piegarsi a essa con un senso di pacata rassegnazione che sembra toccare corde mitiche, con il suo protagonista che entra in scena aggirandosi con un tozzo di pane per le sale di un ristorante, in mezzo a persone indifferenti. Libotz, con il suo nome straniero e l’inaccessibilità dell’outsider, che si fa capro espiatorio dei mali del mondo, rimanda a qualcosa di elementare, a una evangelicità priva di trascendenza e di miracoli, quasi la figura di un mysterium medievale laicizzato, simile in questo ai personaggi dell’ultimo teatro dell’autore svedese, Stationendrama dalle forti valenze simboliche proiettato verso l’icasticità espressionista (e del resto le ultime parole del Capro espiatorio, “E Libotz uscì sulla strada maestra, verso nuovi destini, ch’egli presentiva, ma non temeva più”, sembra un prologo all’ultima opera teatrale compiuta dall’autore svedese, La grande strada maestra, 1909).

Ma Strindberg non resiste fino in fondo alla tentazione del sulfureo, e allora il suo capro espiatorio, con tutta la sua sensibilità e le sue arie da Cristo (più di un’allusione in tal senso cade nel corso del romanzo), possiede anche un versante diabolico, che ce lo rende (e rende il romanzo) più interessante, meno scontato: e così veniamo a sapere che il maestro elementare di Libotz, che nutriva per lui un’avversione immotivata e istintiva e “non poteva avvicinarsi al ragazzo senza maltrattarlo”, si era tolto la vita, roso dal rimorso, due giorni dopo averlo aggredito fisicamente, mentre Askanius, il tormentato proprietario del locale in cui Libotz fa la sua comparsa nella innominata “piccola città adagiata su un fondovalle bordato di vette” in cui la storia è ambientata, colui che per primo prova un moto di compassione nei confronti del nuovo arrivato dal “logoro vestito nero e gli stivali un po’ scalcagnati”, precipita nell’inferno di un progressivo fallimento economico e umano fino al gesto estremo del suicidio. E il vecchio padre del protagonista si consuma nel rancore e nelle recriminazioni, chiuso nell’ospizio in cui il figlio lo ha abbandonato. Perché questa sembra essere la natura del capro espiatorio: attraverso i tradimenti che subisce, le malversazioni di cui è vittima predestinata, le traversie che lo vedono sempre soccombere, chi indossa quella corona finisce per passare indenne, in fondo indifferente al male, a quello che subisce così come a quello del mondo, perché – e in questo consiste la sublime ironia di Strindberg – sa che esso è la condizione scontata e immanente dell’essere.