Ayad Akhtar / Smettere di sentirsi americano

Ayad Akhtar,  Elegie alla patria, tr. Milena Zemira Ciccimarra, La Nave di Teseo,  pp. 472, euro 21,00 stampa, euro 9,99 epub

È un talento poliedrico quello di Ayad Akhtar, autore che si è affermato nel panorama letterario statunitense con opere dai contenuti disturbanti, capaci di provocare il pubblico e di suscitare dibattito. Dopo un fortunato esordio nel 2012 con un romanzo dai tratti autobiografici (American Dervish), ha raggiunto la notorietà con Disgraced, pièce teatrale vincitrice del Premio Pulitzer nel 2013, in cui mette in scena, durante una cena tra amici a Manhattan, un deflagrante conflitto su razza, religione e sesso, sullo sfondo di una perdurante difficoltà: quella di essere musulmano negli United States dopo l’11 settembre. Di recente  è tornato alla narrativa con un nuovo romanzo, Elegie alla patria, ora disponibile in traduzione italiana.

Akhtar si trovava a Roma nei giorni del primo anniversario del mandato presidenziale di Donald Trump. Ospite dell’American Academy, si imbatté casualmente nei Canti di Giacomo Leopardi che si aprono con la canzone All’Italia, accorata apostrofe a un paese precipitato in profonda decadenza morale e civile. La suggestione suscitata dai versi gli fece immaginare di poter “trovare una voce” per rivolgersi ai suoi concittadini: parlare a un’intera nazione lo spinse  a scrivere di getto una “Ouverture” all’America, primo nucleo del futuro romanzo e urgente dichiarazione d’intenti. E la voce trovata è quella di un io narrante che porta il suo stesso nome: una voce irruente, che mescola alla fiction passaggi significativi della vita dell’autore, in un intreccio indistricabile tra vero e immaginato, ottenendo un esito totalmente plausibile e avvincente.

All’inizio della “Ouverture”, il protagonista dice di aver avuto, ai tempi dell’università, una docente straordinaria, Mary Moroni, che parlando agli studenti ricordava come l’America fosse “nata come colonia” e restasse “una colonia, vale a dire un luogo ancora definito dal saccheggio, dove arricchirsi aveva la priorità su tutto e l’ordine civile veniva sempre in secondo piano”. Proprio dalla volontà di ribellarsi a quella prolungata razzia prende avvio un racconto fluviale che attraverso la confessione autobiografica, lo sfogo sentimentale, si configura come un’esplorazione impietosa di un paese nella fase del suo irreversibile declino.

Tante sono le linee di frattura che attraversano la vita di Akhtar, a partire dal rapporto con il padre, immigrato negli Stati Uniti dal Pakistan insieme alla moglie alla fine degli anni ’60, un cardiologo così ingegnoso da diventare, nel 1993, medico curante di Donald Tramp, quando l’affarista newyorkese è vicino al tracollo finanziario e ancora lontano da ambizioni politiche. Aggrappato al mito degli Stati Uniti – il paese delle infinite opportunità e del riscatto personale – il padre di Ayad rimane irretito dalla personalità del suo paziente, ne diventa un convinto ammiratore, fino a sostenerlo, molti anni più tardi, nella corsa alle elezioni presidenziali. La sua percezione della realtà è lontanissima da quella del figlio, che rifiuta di idealizzare la nazione in cui è nato – una nazione fondata sull’oppressione razziale e sul denaro – e vede nel trampismo “la scomparsa di ogni coscienza morale”, “il collasso […] di ogni baluardo contro la ricchezza, “ultima passione americana rimasta in vita”.

Contraddizioni, conflitti, disaccordi investono l’intera famiglia di Ayad, fatta di zie, cugini, amici molti dei quali immigrati in America, tutti appartenenti a una borghesia islamica istruita e laicizzata, ma con profonde radici nel paese d’origine. Ognuno di loro segue con apprensione le vicende che il Pakistan attraversa, mentre gli Stati Uniti, proprio da Islamabad, ordiscono le loro spregiudicate strategie e finanziano – negli anni ’80 – la lotta dei mujahidin contro l’occupazione sovietica in Afghanistan, preparando l’ascesa di quelli che diventeranno i loro mortali nemici: i talebani.

In pagine di particolare brillantezza l’autore si immerge nel groviglio delle relazioni parentali, restituendole attraverso dialoghi di grande efficacia, che danno conto dell’irrequietezza di uomini e donne perennemente in bilico tra la piena adesione al paese in cui sono approdati e la consapevolezza di non poterne o volerne far parte.

E poi arriva il trauma dell’11 settembre. Le Torri sono appena crollate e già in città si sta “spargendo la voce che dietro a quell’inferno ci sono i musulmani”. Ayad sperimenta con angoscia il dilagare dell’ostilità: l’aspetto, il colore, il nome che porta sono elementi sufficienti a sancire l’ostracismo nei suoi confronti. Sebbene non sia più “un musulmano praticante e tantomeno credente”, l’11 settembre lo vincola all’Islam: è l’Islam che da quel momento “lo definisce socialmente”. Così lui, sentendosi “continuamente umiliato e sotto assedio” nell’unico paese che ha conosciuto, prende una decisione: smette di fingere di sentirsi americano.

In un percorso esistenziale accidentato, anche il successo raggiunto molti anni più tardi con Disgraced è fonte di lacerazioni, soprattutto con la comunità dei pakistani, che non perdona ad Akhtar di aver messo in scena un dramma in cui, davanti ai bianchi, i musulmani pongono domande irritanti, rivelano contraddizioni interne al proprio mondo, discreditano la cultura in cui sono cresciuti. Ayad Akhtar si dibatte tra queste e altre traversie, comprese alcune sorprendenti disavventure sentimentali e sessuali, in un romanzo turbinoso, dove i toni accesi dell’invettiva si mescolano alla commozione e all’ironia: un romanzo profondamente politico, in cui l’autore/personaggio sostiene un confronto serrato con sé stesso, ma soprattutto ingaggia un formidabile corpo a corpo con la patria.