Ho delle perplessità su questa lettura. C’è da dire, a mo’ di premessa, che coltivo da tempo una grande passione, e stima, per Chimamanda Ngozi Adichie; che ho amato moltissimo sia Metà di un sole giallo sia Americanah; e che anche senza volerlo avevo delle aspettative alte. Ci sono molte cose belle nel romanzo, e anche la scrittura, e le ambientazioni, sono belle. Ci sono anche molte riflessioni e molti pensieri che vengono in mente leggendo o dopo avere letto il libro. Ma c’è qualcosa che manca. Per cui se leggevo un po’ di pagine e poi mi dovevo interrompere, non avevo poi quel desiderio bellissimo di riprendere la lettura. E quindi non mi sono trovata, come spesso mi succede, a desiderare di raccontarlo e consigliarlo, di vedere la recensione pubblicata, o anche solo a ricordarlo con affetto.
Ma vediamo di cosa parliamo, quando parliamo de L’inventario dei sogni. Innanzitutto i personaggi. Sono quattro donne, tre nigeriane e una della Guinea francese. Le tre nigeriane sono belle e ricche, forse ricchissime, e scontente per diversi motivi. Chia è scontenta perché sente che di tutti gli uomini che ha avuto, nella sua vita agiata e piena di viaggi, non ce n’è uno che l’abbia conosciuta veramente. E mentre la vita scorre veloce, pensa che ormai non le potrà succedere. Amicizie, affetti, viaggi, ricchezza, non possono nulla di fronte allo sconforto di questa prospettiva. Omalagor è scontenta perché si rende conto che non riuscirà ad avere dei figli: ha 47 anni, le piace la sua vita nella villa di Abuja in Nigeria, il suo impegno al sostegno di piccole imprese femminili e altre cause. Ma il continuo ricordarle, da parte della famiglia e soprattutto di una zia, che non è non sarà mai una madre (a meno che non adotti un’orfanella o un orfanello) finisce per farsi strada dentro di lei, costringendola a scoprire parti di sé che avrebbe preferito non conoscere. Zikora è scontenta perché sì, è diventata madre, ma il compagno con cui pensava di condividere la maternità e la vita è scomparso non appena lei gli ha detto di essere incinta. E non è più ricomparso. Neppure quando è nato il bambino, che ora ha cinque anni. E con questa fuga ingiustificata le ha lasciato un’amarezza che niente riesce a raddolcire. Infine Kadiatou, che non è ricca e non è bella, che è la tuttofare di Chia, fuggita dalla Guinea e approdata in America per dare una vita migliore alla figlia Binto, si trova ad essere oggetto di violenza sessuale da parte di un ricchissimo e importante cliente dell’albergo di lusso in cui lavora come cameriera ai piani. Kadiatou è una donna semplice che non desidera altro che pace e affetto, e veder crescere serena la figlia. Si trova quasi costretta a denunciare la violenza subita, e poi, con il suo inglese approssimativo e la sua dignità modesta, resta schiacciata dalla macchina mediatica, che subisce come se fosse un’altra violenza. Sarà solo nel momento in cui rinuncerà al processo che ritroverà la quiete e la calma che desidera sopra ogni cosa.
Ora di queste quattro donne, per quanto interessanti e complesse, non ce n’è nessuna che ci arrivi al cuore, che ci coinvolga, che ci faccia stare dalla sua parte. A nessuna di loro ci sentiamo vicine. Sono donne forti e combattive, di successo eppure ancora fragili, donne che hanno fatto di tutto per superare i pregiudizi ma che poi rimangono incastrate in quel pezzetto di pregiudizio che hanno interiorizzato. Sono donne che, una volta uscite dall’Africa, si rendono conto di cosa sia il razzismo e di come sia difficile conviverci, soprattutto in America. Sono donne ricche a dispetto della nostra immagine stereotipata per cui in Africa non esiste ricchezza. E sono donne che vivono senza riserve, piene di slanci, di affetto, di rabbia, di complicazioni. Potrebbero dunque essere come me e come noi, ma qualcosa nel romanzo ce le tiene distanti, come al di là di un vetro infrangibile.
E poi ci sono gli uomini. Predatori, fidanzati inaffidabili, padri in fuga. Quegli uomini qualunque, pavidi e violenti, di cui sentiamo tanto parlare nella cronaca quotidiana. Addirittura il violentatore di Kadiatou è ispirato allo scandalo Dominique Strauss-Kahn del 2011. Ma anche gli uomini non ci suscitano grandi sentimenti. Mi sono chiesta se sia la distanza culturale, o i pregiudizi che abbiamo senza saperlo. Ma se fosse questo, allora non avremmo dovuto sentire come nostre sorelle, incondizionatamente, le donne di Metà di un sole giallo o di Americanah. E quindi tendo a pensare che questo romanzo non sia uscito dal cuore dell’autrice con la stessa immediatezza e ineluttabilità degli altri. Ma magari mi sbaglio. E quindi leggetelo comunque. Sarà bello avere delle opinioni diverse.