Chimamanda Ngozi Adichie / L’inventario delle delusioni

Chimamanda Ngozi Adichie, L’inventario dei sogni, tr. di Giulia Boringhieri, Einaudi, pp. 512, euro 22,00 stampa, euro 9,99 epub

Ho delle perplessità su questa lettura. C’è da dire, a mo’ di premessa, che coltivo da tempo una grande passione, e stima, per Chimamanda Ngozi Adichie; che ho amato moltissimo sia Metà di un sole giallo sia Americanah; e che anche senza volerlo avevo delle aspettative alte. Ci sono molte cose belle nel romanzo, e anche la scrittura, e le ambientazioni, sono belle. Ci sono anche molte riflessioni e molti pensieri che vengono in mente leggendo o dopo avere letto il libro. Ma c’è qualcosa che manca. Per cui se leggevo un po’ di pagine e poi mi dovevo interrompere, non avevo poi quel desiderio bellissimo di riprendere la lettura. E quindi non mi sono trovata, come spesso mi succede, a desiderare di raccontarlo e consigliarlo, di vedere la recensione pubblicata, o anche solo a ricordarlo con affetto.

Ma vediamo di cosa parliamo, quando parliamo de L’inventario dei sogni. Innanzitutto i personaggi. Sono quattro donne, tre nigeriane e una della Guinea francese. Le tre nigeriane sono belle e ricche, forse ricchissime, e scontente per diversi motivi. Chia è scontenta perché sente che di tutti gli uomini che ha avuto, nella sua vita agiata e piena di viaggi, non ce n’è uno che l’abbia conosciuta veramente. E mentre la vita scorre veloce, pensa che ormai non le potrà succedere. Amicizie, affetti, viaggi, ricchezza, non possono nulla di fronte allo sconforto di questa prospettiva. Omalagor è scontenta perché si rende conto che non riuscirà ad avere dei figli: ha 47 anni, le piace la sua vita nella villa di Abuja in Nigeria, il suo impegno al sostegno di piccole imprese femminili e altre cause. Ma il continuo ricordarle, da parte della famiglia e soprattutto di una zia, che non è non sarà mai una madre (a meno che non adotti un’orfanella o un orfanello) finisce per farsi strada dentro di lei, costringendola a scoprire parti di sé che avrebbe preferito non conoscere. Zikora è scontenta perché sì, è diventata madre, ma il compagno con cui pensava di condividere la maternità e la vita è scomparso non appena lei gli ha detto di essere incinta. E non è più ricomparso. Neppure quando è nato il bambino, che ora ha cinque anni. E con questa fuga ingiustificata le ha lasciato un’amarezza che niente riesce a raddolcire. Infine Kadiatou, che non è ricca e non è bella, che è la tuttofare di Chia, fuggita dalla Guinea e approdata in America per dare una vita migliore alla figlia Binto, si trova ad essere oggetto di violenza sessuale da parte di un ricchissimo e importante cliente dell’albergo di lusso in cui lavora come cameriera ai piani. Kadiatou è una donna semplice che non desidera altro che pace e affetto, e veder crescere serena la figlia. Si trova quasi costretta a denunciare la violenza subita, e poi, con il suo inglese approssimativo e la sua dignità modesta, resta schiacciata dalla macchina mediatica, che subisce come se fosse un’altra violenza. Sarà solo nel momento in cui rinuncerà al processo che ritroverà la quiete e la calma che desidera sopra ogni cosa.

Ora di queste quattro donne, per quanto interessanti e complesse, non ce n’è nessuna che ci arrivi al cuore, che ci coinvolga, che ci faccia stare dalla sua parte. A nessuna di loro ci sentiamo vicine. Sono donne forti e combattive, di successo eppure ancora fragili, donne che hanno fatto di tutto per superare i pregiudizi ma che poi rimangono incastrate in quel pezzetto di pregiudizio che hanno interiorizzato. Sono donne che, una volta uscite dall’Africa, si rendono conto di cosa sia il razzismo e di come sia difficile conviverci, soprattutto in America. Sono donne ricche a dispetto della nostra immagine stereotipata per cui in Africa non esiste ricchezza. E sono donne che vivono senza riserve, piene di slanci, di affetto, di rabbia, di complicazioni. Potrebbero dunque essere come me e come noi, ma qualcosa nel romanzo ce le tiene distanti, come al di là di un vetro infrangibile.

E poi ci sono gli uomini. Predatori, fidanzati inaffidabili, padri in fuga. Quegli uomini qualunque, pavidi e violenti, di cui sentiamo tanto parlare nella cronaca quotidiana. Addirittura il violentatore di Kadiatou è ispirato allo scandalo Dominique Strauss-Kahn del 2011. Ma anche gli uomini non ci suscitano grandi sentimenti. Mi sono chiesta se sia la distanza culturale, o i pregiudizi che abbiamo senza saperlo. Ma se fosse questo, allora non avremmo dovuto sentire come nostre sorelle, incondizionatamente, le donne di Metà di un sole giallo o di Americanah. E quindi tendo a pensare che questo romanzo non sia uscito dal cuore dell’autrice con la stessa immediatezza e ineluttabilità degli altri. Ma magari mi sbaglio. E quindi leggetelo comunque. Sarà bello avere delle opinioni diverse.