Cosimo Ortesta / Poesia appartata?

Cosimo Ortesta, Tutte le poesie, Argolibri, cura Jacopo Galavotti, Giacomo Morbiato e Vito M. Bonito, pp. 356, euro 18,00 stampa

Ormai inoltrati nel ventunesimo secolo – per quanto la direzione degli eventi sembri risospingerci continuamente all’interno del ventesimo – la disponibilità di testi che rappresentino e raccontino la letteratura italiana degli ultimi vent’anni del Novecento, nonché dei cosiddetti “anni Zero”, sta diventando una necessità sempre più pressante. Risponde anche a questa esigenza il catalogo di Argolibri che, ormai da anni, promuove la ripubblicazione di opere fondamentali di quegli anni, spingendosi anche più a ritroso nel tempo, e rimettendo a disposizione testi che, in particolare nel campo della poesia, sono diventati di difficilissima, se non impossibile reperibilità materiale.

Dopo l’avvio, in più volumi, della ricognizione dell’opera completa di Corrado Costa (1929-1991), Argolibri propone ora Tutte le poesie di Cosimo Ortesta (1939-2019), passando apparentemente, e nonostante l’assonanza tra cognomi, a tutt’altra declinazione della poesia italiana. Apparentemente, perché la scelta editoriale di editore e curatori (si ricorda il saggio monografico di Galavotti e Morbiato Una sola digressione ininterrotta. Cosimo Ortesta poeta e traduttore, Padova University Press, 2021, e Il gelo e lo sguardo. La poesia di Cosimo Ortesta e Valerio Magrelli, di Bonito, per Clueb, 1996) cade sicuramente su un poeta talvolta molto lontano dalla ricerca portata avanti dal gruppo di Mulino di Bazzano; tuttavia, non è certamente questo dato a poter inficiare un lavoro culturale più ampio, di riscoperta e nuova germinazione culturale, che la collana in cui si inserisce il volume (curata dai poeti e traduttori Andrea Franzoni e Fabio Orecchini) identifica sin dalla sua prima denominazione, “Talee”.

Anzi, rispetto a Corrado Costa – già assurto a punto di riferimento per molte scritture di ricerca contemporanee – la scommessa che si fa con Ortesta è forse ancora più ardua. È perduta già in partenza, ad esempio, se si mira, con questa nuova germinazione, a costruire nuove genealogie che siano unite da legami forti di filiazione e affiliazione. Non che sia impossibile avvicinarsi alla lettura di Ortesta, né al suo profilo di “autore appartato”; non è nemmeno faticoso ritrovare in essa temi e motivi che percorrono la produzione poetica contemporanea, laddove la scrittura si fa “post-lirica” (l’opera più recente di canonizzazione nei confronti della poesia di Ortesta avviene con l’antologia Dopo la lirica, Einaudi, 2005, a cura di Enrico Testa) e il percorso interpretativo si profila, volente o nolente, come neo-heideggeriano. Quando ad esempio Vito Bonito scrive, nella prefazione: “Se parlare è perdere, allora nelle contratture della passione la biografia è solo un dondolio nella materia acustica della scrittura (se così si può dire). Qui siamo ‘in presenza’ di personae senza più presente e presenza. Adorate larve tra cui l’io stesso consuma il proprio disorientato inabissamento”, questo vale tanto per l’autore prefato che per il prefatore e la sua poesia.

È un posizionamento che non basta, però, e che i vari curatori approfondiscono immediatamente e con dovizia di dettagli, nella loro lettura dell’opera. Queste righe, infatti, offrono innanzitutto un appiglio per iniziare il viaggio dentro quella Passione della biografia che è anche titolo della prima (1975, in rivista) e ultima pubblicazione dell’autore (2006, in libro). In quel testo, appare distintamente quel “disorientato inabissamento” dell’io che, in tutta l’opera del poeta, rende la “passione della biografia” non tanto (anzi, quasi mai) un esercizio di biografismo, quanto il pathos raffreddato di chi, o meglio, di quell’istanza dell’enunciazione che – citando dalla stessa “Passione della biografia 2 – “[c]onserva tutte le tracce, il grado di sviluppo di ciascuna. Su queste si abbandona e si ritrae verso il bordo imbevuta incrostata (il gioco si svolge alle sue spalle)”.

Poche righe di citazione, ma che danno già conto del peculiare posizionamento dell’opera di Ortesta nell’ambito del “genere”, se così si può chiamare, della prosa poetica, o poesia in prosa, di lì a pochi anni declinato in altro senso dal fondamentale macro-libro “a più voci” Prosa in prosa (2009). Per Bonito, “La passione della biografia” ha “sembianza di trattatello filosofico” dove ogni “impulso bio-grafico (e non autobiografico) [è] risospinto continuamente verso un’operazione ininterrotta di scrittura e cancellazione che rinuncia a un qualsiasi fine a lei esterno”. Si istituisce, infatti, una dicotomia bianco/nero, tra presenza e assenza di segni, che sezioni di libro come “La nera costanza” (dall’omonimo libro del 1985) e “Da neve a neve” (dal successivo Nel freddo di un progetto perenne, 1989) elaborano molto oltre i semplici binarismi già propri dell’Indovinello veronese e passati, per successive semplificazioni, in tanto poetese. Non vi è un fine esterno, come scrive Bonito, e infatti la risultanza è in primo luogo “acusmatica”, nella sua lettura, che così prosegue: “La trama bio-grafica si dispone in pieghe, posture, apparizioni fenomeniche in cui il soggetto viene messo ‘fuori causa’…”, passaggio in cui la menzione della piega non può che ricordare il titolo dell’auto-antologia di Ortesta Una piega meraviglia (Anterem, 1999).

Oltre ad arricchire la costellazione di autori francofoni (Philippe Jaccottet, Jean Thibaudeau, Yves Bonnefoy, Claude Ollier) tradotti da Ortesta in rivista con una particolare resa energetica e al tempo stesso un “volgere a nero” della parola che gli è peculiare rispetto ad altri traduttori, il riferimento deleuziano si aggiunge alla “variegata costellazione di riferimenti che deve molto alle coordinate fissate in area francese da Tel Quel e include, oltre a Freud, la grammatica onirica di Mallarmé (letto attraverso il filtro della psychocritique di Charles Mauron) accanto alla schizofrenia simulata dei Canti orfici” ravvisata da Morbiato in uno dei due saggi conclusivi per quanto riguarda, più da vicino, la produzione poetica di Ortesta. Decisiva, però, sembra l’epigrafe di Kafka, posta in apertura di quel Serraglio primaverile che è coevo di Una piega meraviglia e rappresenta forse l’apice della produzione dell’autore: “Da un certo punto in poi non c’è più ritorno. Quel punto dev’essere raggiunto”.

La sezione omonima di questo libro si apre con una famosa nota dell’autore: “Le poesie di questa sezione sono nate, per suggestione, da La camera da letto di Attilio Bertolucci, a cui vanno la mia gratitudine e tutto il mio affetto”, dichiarazione che rende conto in modo emblematico – specie se accostata a un’altra poesia di Ortesta con dedica per Amelia Rosselli (certamente più “acusmatica” di Bertolucci) – di un poeta come Ortesta, già inserito nella tradizione canonica della poesia italiana, ma sempre pronto a rivolgerla “a nero”. Insomma, non è mai stato in tutto e per tutto appartato Cosimo Ortesta – come ogni poeta, del resto – e gli autori hanno inteso, per nostra fortuna, ricordarcelo.