Non bevete questo sangue

Il vampiro, ritornante nostalgico e fluido che angoscia la modernità Note a margine a Il Vampiro e la Malinconia di Vito Teti

In Robespierre, brano di grande successo nella scena indipendente italiana del 2005 degli Offlaga Disco Pax di Reggio Emilia, il cantante Max Collini fa un elenco di cose, eventi, persone e merci provenienti dagli anni Settanta. Si tratta di una evocazione pop nostalgica – non priva di ironia – di un mondo tramontato nel quale tutto sembrava possibile. “Ho fatto l’esame di seconda elementare nel 1975 / il Socialismo era come l’Universo / in espansione” esordisce il pezzo e, a un certo punto, vengono citati “i fumetti di Zora, la vampira porno” (albo a fumetti di grande successo in Italia – e poi anche in Francia – dal 1971 al 1985, per 235 uscite) che, nel video, ha le sembianze di una giovane donna bruna con i capelli lunghi e la frangetta, reggiseno, minigonna e un lungo mantello tutti neri, inquadrata mentre si regge a una vecchia automobile Prinz di fabbricazione tedesca. Una scheggia di passato che mescola erotismo, malinconia e ritorno impossibile a un eden scomparso.

La figura del vampiro, in effetti – che sopravvive e giunge fino a noi sin dalla classicità greco-romana, seppure con nomi e caratteristiche diverse – concentra in sé tutti questi elementi: lo spiccato, a tratti famelico, erotismo e una struggente e malinconica nostalgia di una vita non vissuta a pieno, di un languore esistenziale da soddisfare. Con questo carico simbolico, il vampiro ricompare periodicamente in Occidente in momenti di transizione, di crisi, di annuncio di tempi nuovi e incerti, al tramonto di formazioni sociali e culturali tradizionali. Nel bellissimo, magmatico, ed enciclopedico Il vampiro e la melanconia. Miti, storie, immaginazioni (parte di una trilogia sulle figure dei ritorni, degli abbandoni, delle transizioni) dell’antropologo Vito Teti – autore di ricerche rilevanti come quella sulla Razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale (manifestolibri, 2011) –, il vampiro emerge come figura di soglia: annunciatrice di una modernità che nasce sulle macerie ancora fumanti – ed inquietanti – di società arcaiche e tradizionali [Gallo].

Il vampiro, argomenta Teti, si presenta come figura errante, inquieta, portatrice di elementi di disgregazione comunitaria. Esso esplode come una vera e propria epidemia in Europa orientale (Ungheria, Polonia, Romania, Serbia) nel Settecento, quando in molte aree, dalla Bulgaria alla Slesia, dalla Romania all’Ungheria, vengono denunciati casi di morti tornati in vita che assalgono i vivi in cerca di carne e sangue; tutti eventi che si manifestano in concomitanza con le riforme accentratrici dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Il vampiro agita le periferie di un Impero in rapida trasformazione o modernizzazione e i tanti fenomeni di vampirismo dilagante denunciati dalle cronache del tempo riescono nel miracolo di far convergere l’azione di due entità che erano invece prossime a uno scontro totale: la scienza e il razionalismo illuminista da una parte, la Chiesa cattolica dall’altra, entrambe – per ragioni diverse – preoccupate dal ritorno di forme di irrazionalismo popolare e superstizione che sembravano sconfitte e destinate a scomparire per sempre. Nel 1755 l’imperatrice firmerà addirittura un Rescritto sui vampiri arrogandosi il diritto di decisione e sanzione sui tantissimi casi di vampirismo, esautorando le autorità periferiche, negando ovviamente l’esistenza dei vampiri e, soprattutto, assestando un colpo alle superstizioni in aree scarsamente controllate di un’Europa che stava entrando nella curva di una modernizzazione basata su controllo poliziesco, razionalità e scientificità come fondamenti socio-antropologici di comunità nuove.

Il vampiro, dunque – dall’Europa centro-orientale a quella sud-orientale –, si manifesta in età moderna come sintomo e insieme fenomenologia di radicali cambiamenti di paradigma nell’organizzazione politico-sociale: un po’ come quella degli alieni e del loro arrivo – annunciato, minacciato, avvistato, millantato – nel contesto della Guerra fredda, il cui immaginario era alimentato dalle mitologie dei viaggi spaziali (veri, presunti, progettati) e del terrore atomico.

In effetti, nel suo saggio Blood. A Critique of Christianity (2014), Gil Anidjar considera lo Stato capitalista moderno come uno “Stato vampiro” una sorta di comunità di sangue nella quale il denaro rappresenta il fluido vitale, la famiglia e l’appartenenza rappresentano la sessualità, la nazione come gruppo politico coeso e la razza (la presunta e falsa differenza di sangue tra esseri umani) come il fondamento teologico-giuridico di questa comunità.

E non è certamente un caso se Karl Marx nei suoi celebri quaderni di appunti noti come Grundrisse (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1858) [Luca Cangianti, “Vampiri marxiani”, Pulp] considerasse la transitorietà del capitale da denaro a merce come il frutto di quella capacità di “succhiare l’anima del lavoro vivo, come un vampiro”. Questo coacervo di questioni – sangue, vita/morte, tradizione/modernità, passaggi di stato e transizioni – si ritrovano in un romanzo avvincente e brillante per costruzione narrativa e tesi: Sangue e plusvalore (Imprimatur, 2015) di Luca Cangianti [Michielin], nel quale un Marx immalinconito dal fallimento del 1848 e dall’esilio inglese e alle prese con la faticosissima scrittura de Il Capitale si cimenta nell’affrontare un terribile, mostruoso vampiro nelle fattezze di un distinto – quasi un dandy tardoromantico – padrone di una fabbrica. E lo stesso vale per l’altro moloch ottocentesco, quel colonialismo che, in contrappunto con l’industrialismo, alimenta i sogni di estrazione e arricchimento dell’Europa. Proprio in un contesto tardo coloniale – nell’Algeria della Guerra di liberazione teorizzata, raccontata e vissuta da Frantz Fanon – nel suo Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia (Tempi Nuovi, 2016), il filosofo camerunese Achille Mbembe richiama il vampiro “che minaccia di svuotare il nostro corpo di tutto il sangue, simbolo di un’interminabile emorragia”, simbolo del persistente carattere di prosciugamento coloniale.

Ma dentro il campo di tensioni e fortissime spinte modernizzanti – economiche, culturali e tecnologiche – creato da colonialismo e industrialismo, il cosiddetto vampiro folklorico declina per convergere nella figura più articolata del vampiro letterario dei romantici, ai quali interessavano certamente alcuni degli aspetti tradizionali, mitici e distanti nel tempo e nello spazio: formazioni culturali che ritenevano esotiche e irrazionalistiche e che tanto ne solleticavano le fantasie.

Il vampiro non ha più la funzione di disseppellire i morti – letteralmente e metaforicamente – quanto piuttosto di alludere ai morti nascosti dentro di noi, negli armadi della nostra coscienza, aggirandosi fra le rovine (materiali e figurate) tanto care ai romantici.

Il vampiro romantico, che gradualmente perde i connotati mostruosi, non più pallido ed emaciato, morto che ritorna ma soggetto che acquisisce le qualità di un solitario, malinconico seduttore, triste e destinato alla catastrofe: progressivamente sempre più disperato, incapace di fare i conti con la sua stessa immortalità che considera un insopportabile fardello. Tanto da radicalizzare il suo isolamento e concepire il suicidio, la scomparsa definitiva della sua presenza sulla Terra. L’Ottocento è il luogo ideale in cui il vampiro fiorisce nel giardino sempre più angusto che resiste nell’incipiente modernità meccanizzata. Nel 1816, a Villa Diodati, sulle rive del lago di Ginevra, durante notti buie e cariche di fascino misterico, insieme a George Byron, Percy Bisshe Shelley e Mary Wollstonecraft Shelley – che proprio lì concepirà il suo Frankenstein – c’è anche John William Polidori che, ispirandosi alla vita libertina di Byron, scriverà Il vampiro (1819) [Silvia Arzola, “Da Polidori a Varney”, Pulp] vero modello romanzesco per oltre un secolo di letteratura fino alla summa tardoromantica del Dracula di Bram Stoker. Almeno due generazioni di letterati tardo settecenteschi e ottocenteschi si sono confrontati con questa figura sconcertante: personaggio letterario che letteralmente incarnasse – un secolo prima dell’invenzione dell’inconscio – paure profonde, angosce, disturbi, turbe e tabù. Da a E.T.A. Hoffmann (“Vampirismo”, 1821) [Fambrini] a Théophile Gautier (“La morta innamorata”, 1836) e Charles Baudelaire (“Il vampiro” ne I fiori del male, 1857): [Scotti\Grasso] vampiri come dandy e flaneur, figure dell’inquietudine che ora vagano per le città in cerca di sangue non per una letterale e atavica fame/sete ma per sopire angosce esistenziali. Per arrivare alle vampire inquiete e ingenue ma ossessionate da profonde e potenti pulsioni erotiche lesbiche: dalla ballata “Christabel” (1797-1800) di Samuel Taylor Coleridge fino a un altro fondamentale modello come “Carmilla” (1871-72) di Sheridan Le Fanu. [Pezzini\Scotti]

Questo immaginario, ancora così presente nella cultura contemporanea, viaggia e si trasforma. Come sottolinea Teti, ne L’ultima notte di Furio Jesi [Fambrini e Prezzavento](concepito nel periodo 1962-70 e pubblicato postumo) si ritrova un’interpretazione molto attuale, quasi fantasy ed ecologista/umanista del mito del vampiro: non più umani morti che ritornano, ma ritornanti che non sono mai stati umani, bensì da essi sconfitti, dominati e oppressi. Questi vampiri tornano per riprendersi la Terra deturpata dagli uomini, incapaci di gestire un patrimonio sottratto ai vampiri che ne avevano invece amorevole cura. Essi sarebbero portatori di principi di libertà e tolleranza contro la cattiveria umana. Tutti elementi che si ritrovano, per esempio, nella serie tv americana True Blood (HBO, sette stagioni: dal 2008 al 2014) [Romei], nella quale il rapporto umano/vampiro, proprio in un’atmosfera d’apocalisse imminente, è giocato sul crinale discriminazione/tolleranza e le alleanze strategiche tra le due specie indica uno scontro epico tra libertà e oppressione. Nella serie, infatti, i temi dell’omosessualità e della razza sono continuamente richiamati e metaforizzati, in un gioco di specchi che esalta la figura del vampiro come eccentrico ed emarginato che ha sempre una lezione di umanità da offrire agli esseri umani, che subiscono il potentissimo carisma, non solo per la nota (sin dalle cronache settecentesche) capacità di ipnotizzare le proprie vittime con lo sguardo. Capacità che, come ricorda Teti, allude anche alla castrazione: in True Blood la potenza sessuale dei vampiri è talmente parossistica da risultare insieme umiliante per gli umani ma anche ironica, quasi ridicola, giocata sugli stereotipi della sottocultura pornografica dilagante dalla quale cita visivamente a piene mani. Scrive Teti – parlando di Jesi, ma potrebbe riferirsi anche a True Blood: “Vampiri e uomini che vivono una «vita» diversa s’incontrano e si combattono nelle moderne città, avvolte da un’atmosfera rarefatta, onirica, melanconica, tipica delle situazioni di fine. La miseria, l’avidità, la dissoluzione, il fanatismo misto d’orgoglio e di bassezza, la cupidigia, la corruzione, la crudeltà fredda e tranquilla, l’atrocità degli uomini persecutori non bastano più a contrastare la forza selvaggia dei vampiri.”

Non è forse qui superfluo ricordare che Alan Ball, l’autore di True Blood, era stato anche creatore di una delle prime grandi serie TV di successo planetario, Six Feet Under (HBO, cinque stagioni: dal 2001 al 2005), che tematizzava proprio la morte, mettendo al centro il lutto, la sua elaborazione pubblica, nonché la necessità di non rimuovere – dallo spazio dell’esistenza umana – né la morte né i morti. Rimozione invece sempre più paradigmatica nell’America post 11 settembre, dove i corpi dei marine morti all’estero sono invisibili – o ridotti a bare tutte uguali, ricoperte dalla bandiera a stelle e strisce – e, come notava anni fa Slavoj Žižek, la morte e i corpi dilaniati dei prigionieri di Guantanamo o di Abu Grahib, d’altro canto, sono risultati scandalosamente insostenibili non tanto per la violazione dei diritti umani di cui sono testimoni ma per essere stati resi visibili.

Il vampiro è una figura di soglia – si diceva all’inizio – e nelle sue mille reincarnazioni è impossibile cristallizzarlo esclusivamente nei suoi aspetti negativi: il succhiasangue che lentamente distrugge corpi, comunità, interi sistemi. Sintomo di crisi, esso ci appare oggi in tutta la sua (in)attualittà: leggere la stessa epidemia vampirica del Settecento con le lenti certamente deformanti del nostro tempo ci segnala, per esempio, l’angosciante riemergere dei nazionalismi nella variante cosiddetta “sovranista” a difesa da una presunta “invasione” di elementi estranei – oggi migranti e migrazioni. L’emigrante, scrive Teti, “è un vivente che è morto per la società di origine” e, come il vampiro, “vive senza sentirsi vivo” e “abita il nuovo mondo come in una bara”: il vampiro come uno straniero “chiede accoglienza e perturba”. È tuttavia possibile, nell’oggi, un rovesciamento di segno: perché l’arrivante di oggi – che è anche spettro ritornante del colonialismo, ovvero di una forma di globalizzazione ante litteram o delle origini – rappresenta la resistenza a forme di chiusura e arretramenti antimoderni.

Allo stesso modo viene del tutto naturale accostare l’epidemia vampirica di ieri con l’eccedenza e l’abbondanza della figura degli zombie nella cultura pop(olare) di oggi. In una sovrapposizione stratificata di miti e leggende, intrecci folklorici e storia del presente. Teti, del resto, riporta anche la leggenda India sudamericana del “kharisiri” che risulta “storicamente legata alla dominazione degli spagnoli, alla crisi profonda della società indigena e a forme di resistenza al dominio coloniale”. Ancora più clamorosa le notizie giunte di recente dal Malawi, dove l’accusa di vampirismo e stregoneria avrebbe portato a diversi omicidi nel 2017, al ritiro del personale ONU e all’accanimento contro turisti provenienti dal vicino Mozambico, ma anche contro una molteplicità di soggetti marginalizzati: anziani, vedove.

Giunge ai bordi del nostro presente, appare ai nostri confini militarizzati l’enorme lavoro di rielaborazione storica, culturale e antropologica di Vito Teti – in questa edizione aggiornata e notevolmente ampliata con ricchissimo apparato iconografico e un capitolo finale colmo di spunti: “Altri ritorni (2007-2018)” –, costruendo un vero e proprio palinsesto della modernità globale che, dalla cultura classica alle serie TV contemporanee, ha al suo centro la figura del vampiro: ritornante nostalgico e fluidificante di immagini dominanti. Ma non si tratta della forzata dimostrazione di una tesi a ritroso, quanto di un affascinante e vertiginoso percorso interpretativo che ci guida attraverso un mito (dis)umano, troppo umano che coniuga aggressività e fragilità, frustrazione e realizzazione del desiderio, terrore della fine e suo superamento fino alla struggente impossibilità di un ritorno: alla vita, alle origini, a una condizione perduta, al radicalmente umano. È l’immagine malinconica di vite già vissute, dei tremori di una carne (morta) in cerca di un’erotizzazione dissoluta.

BIBLIOGRAFIA

Vito Teti, Il vampiro e la melanconia. Miti, storie, immaginazioni, Donzelli.

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