Dolceamara marusìa

Antonella Ossorio, La cura dell’acqua salata, Neri Pozza, 2018, pp. 304, euro 17,00 stampa, euro9,99 ebook.

“La custodia piatta, rivestita di marocchino rosso, risaltava sul ripiano del tavolo come il pomo proibito tra le fronde dell’Albero della Conoscenza. Brais Barreiro la prese, sollevò il coperchio; prigioniero di un’eterna prima volta, mormorò: «Mio!»”

Con la parola sapo si intende, in gallego, un tipo di collana con pendente, tipica del costume tradizionale delle donne: il nome deriva dalla somiglianza tra la filigrana del gioiello e le irregolarità della pelle di rospo (il sapo, appunto) che in molte culture è associato al male. Con questa spiegazione, ne La cura dell’acqua salata è presentato il capolavoro di Brais Barreiro, celebre orafo galiziano: fin da subito, la sua volontà si annulla davanti al sapo e l’eventualità di una separazione gli provoca una sofferenza insopportabile. Il gioiello palpita come una creatura viva e il desiderio di averlo solo per sé lo spinge a uccidere il committente, Santiago Castro, quando questi si presenta a ritirarlo.

Riscosso dal furore che l’ha portato all’omicidio, Brais capisce che deve fuggire: imbarcato su un mercantile britannico, la Mary Elizabeth, dopo una lunga traversata del Mediterraneo si fermerà a Napoli e avrà una nuova famiglia col nome di Santiago Romero. Nel corso degli anni, il cognome sarà storpiato in Romeo: nel romanzo, al racconto della sua fuga si intrecciano le vite degli ultimi discendenti della stirpe dei Romeo, orafi da generazioni, ma pressati dalla povertà e dalla fame nella Napoli del 1943. Eppure, di padre in figlio, il sapo continua ad appartenere alla famiglia e dietro le decorazioni dorate vive ancora una scintilla di magia che lo lega a tutti i primogeniti maschi, compreso il piccolo Enzo che, a otto anni, già sente dentro di sé il languore della marusìa, una parola che racchiude l’angoscia, lo smarrimento, la paura: si insinua nei suoi sogni e, come per tutti gli altri uomini destinati al sapo, nuota al largo, tra le onde del mare, nella forma di mostro marino.

Ma le donne non sono vittime della maledizione e proprio dalla moglie del capofamiglia, Carolina, nasce l’idea blasfema: liberarsi del sapo, venderlo e spezzare l’incantesimo che obbliga i primogeniti ad essere orafi, solitari come il loro antenato e infelici sotto il peso di un’eredità che sembra non lasciare scampo, come l’abete che incombe sulla casa di famiglia. La memoria ancestrale che nasce dal sangue vibra nei Romeo, i loro ricordi personali si fondono in una memoria condivisa di magia, solitudine, seduzione: da qui la scelta dell’autrice di non seguire un rigido schema narrativo.

Inoltre, è da sottolineare la cura nella scelta delle parole, in un ponte tra la realtà dell’ambientazione e il soprannaturale della maledizione: quest’ultima è suggerita dall’ineluttabilità del destino della famiglia Romeo più che esplicitata in azioni dirette del sapo. È l’obbligo a una vita predeterminata come orafi e custodi del capolavoro di Brais Barreiro che recide ogni aspirazione personale – come accade al giovane Ferdinando, deciso a diventare architetto dopo l’incontro con il famoso Lamont Young, al quale è dedicato il romanzo. Il sapo pertanto simboleggia il pregiudizio, la paura di scegliere per se stessi un destino diverso da quello imposto dagli altri.

Per questo motivo l’acqua salata – come scritto da Karen Blixen, sudore, o lacrime, o acqua di mare – è la chiave per rompere la maledizione: il coraggio di affrontare il dolore, il cambiamento, la vita. Dopo La mammana (Einaudi, 2014), Antonella Ossorio, già autrice di numerosi libri per ragazzi, torna alla letteratura “più adulta” mantenendo il suo stile delicato e poetico: l’angoscia, la marusìa, ma anche la bontà, la familiarità degli affetti, le infinite tonalità del vivere umano sono dipinte da Ossorio con un’eleganza fatta di ironia, sincerità, tra la favola e il romanzo storico.

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