Enrico Ghezzi / Un ininterrotto flusso di pensiero

Enrico Ghezzi, paura e desiderio. cose (mai) viste, pref. di Aura Ghezzi, La nave di Teseo, pp. 688, euro 24,00 stampa

Questo libro è la nuova edizione aggiornata dell’omonimo testo pubblicato da Bompiani nel 2000, che raccoglie tutti gli scritti di critica cinematografica di Enrico Ghezzi. Autore e programmista televisivo oltre che critico e curatore di rassegne e festival cinematografici, ideatore di programmi celeberrimi come Schegge, Blob, o Fuori Orario (cose mai viste), il cui titolo è ripreso da quello del volume, Ghezzi ha una lunga carriera alle spalle, ripercorsa in questa silloge di tutti i suoi testi maggiori dagli anni ’70 – quando esordì sulla rivista Il falcone maltese – in poi, sulle pagine di “Filmcritica”, fino a quelle – ormai negli anni ’90 e primi 2000 – dei maggiori quotidiani, da “Il Manifesto” a “Il Corriere della sera”.

Uno spaccato utile, nel bene e nel male, per capire, attraverso le recensioni dei maggiori film che hanno attraversato gli ultimi decenni – dal tardo Buñuel a Kubrick, da Herzog a Truffaut, da Monte Hellman a Carpenter – ma non solo, ripercorrendo anche tutta la storia del cinema nei suoi classici e nelle sue figure totemiche – Lon Chaney e Tod Browning, John Wayne, Rossellini, Hitchcock, Lubitsch, Russ Meyer, ecc. – cosa sia stata la critica cinematografica in Italia. Nel bene e nel male, si diceva, forse più nel male che nel bene: una scrittura faticosa, iper-intellettualizzante e circonvoluta; un parlarsi addosso in cui spesso si perde la direzione e il senso; uno spreco di parole e paroloni per dire spesso (quasi) niente. Solo certi sproloqui filosofici in cui gli autori heideggereggiano – con tutti i loro giochetti di senso, le parole col trattino, i neologismi oscuri, ecc. – stanno al pari di quelli dei critici cinematografici, quasi che un argomento “volgare”, nel senso di popolare, come il cinema necessitasse di essere nobilitato, aristocraticizzato, linguisticamente e argomentativamente, da un’albagia locutoria che rifuggisse ogni comunicazione vernacolare: un’ermeneutica comprensibile solo se a sua volta interpretata da un’élite di lettori parimenti iperintellettuali e debitamente abbeverati a strutturalismo e linguistica saussuriana.

Il vero problema non è solo che il senso e il significato spesso e volentieri sfuggono – ma che ha detto? – o che il messaggio finale non ripaga della fatica della lettura – tutto qui allora? – ma soprattutto che la noia imperversa sovrana, che si legge ahimè (anche) per divertimento e non per patimento, che spesso troppe circonvoluzioni cerebrali e concettose rischiano di farci odiare un film amato, perché magari un intelligentone ci suggerisce amabilmente che non ci abbiamo capito nulla e che il cinema non è passione viscerale ma speculazione articolata e metodica afferente ad un diverso ordine di pulsione masturbatoria. E molto di masturbatorio c’è in questi testi che volendo troppo disquisire, più che indagare, solleticare più che altro l’ego dell’autore (e forse quello di un certo tipo di lettore), più che commentare ed eventualmente chiarire un film, rasentano spesso l’illeggibilità rovinandoci il gusto sano e sciocco della risata per le torte in faccia di una slapstick comedy o dell’onesto brivido per il benemerito jumpscare di un horror.