Ferdinando Fasce. Un saggio di metodo a partire dai Beatles

Ferdinando Fasce. La musica nel tempo. Una storia dei Beatles, Einaudi, pp. 250, euro 20,00 stampa, euro 10,99 epub

Ferdinando Fasce non sa né leggere né suonare la musica, come scrive, a mo’ di avviso, nella prima pagina della Musica nel tempo. Ripensandoci a libro letto, l’ignoranza musicale di Fasce viene da considerarla una circostanza fortunata, di cui ringraziare il destino. È proprio perché non si sa raccapezzare col pentagramma che Fasce non ha scritto una storia della musica creata dai Beatles, ma è riuscito invece a collocare quella produzione musicale nella storia e a descrivere i vari contesti che contribuiscono a spiegarne le origini e l’evoluzione, a raccontarci, insomma, cosa succede alla “musica nel tempo”. Ma questo non è tutto, perché il lavoro di Fasce è un prezioso saggio di metodo che spiega come si fa storia culturale, un’arte ancora poco praticata in Italia. In altre parole ci troviamo davanti a un caso di “compri uno e prendi due”. Al prezzo di un libro, l’acquirente riceve in cambio sia il racconto ragionato delle vicende dei Beatles, dalla nascita di John Lennon nel 1940 fino allo scioglimento del gruppo trent’anni dopo, sia un manuale di come si fa storia culturale. Prendendo come oggetto di studio un caso specifico, l’ascesa dei Beatles a gruppo musicale simbolo degli anni Sessanta del Novecento, La musica nel tempo mostra come si possano ricostruire i rapporti fra un prodotto culturale, le canzoni scritte e cantate dai Beatles, da una parte, e una serie di situazioni, storiche, geografiche, tecnologiche, e generazionali, che tale prodotto spiegano senza però determinarlo. Lo spiegano perché senza il loro apporto quel prodotto non avrebbe mai potuto vedere la luce, ma non lo determinano perché quella particolare mescola di storia, geografia, tecnica e comportamenti giovanili attorno a un soggetto catalizzatore (i Beatles) è un evento unico e imprevedibile, per quel che riguarda sia i modi del suo prodursi sia il suo sviluppo, di nuovo, nel tempo.

Prendiamo per esempio il territorio urbano dove i quattro Beatles nascono e crescono come individui e muovono poi i primi passi come gruppo: Liverpool. È il terminale sul lato inglese degli scambi di merci e persone con il nord America, nonché il porto d’arrivo della storica immigrazione dall’Irlanda e di quella più recente dai Caraibi. Jazz, rhythm and blues, rock and roll, calypso e ballate irlandesi arrivano a Liverpool lungo le rotte del commercio, della navigazione passeggeri e dell’emigrazione. Oppure, consideriamo invece il retroterra familiare dei quattro. Di nuovo l’Irlanda — presente nelle radici di John Lennon, Paul McCartney e George Harrison — e poi la passione per la musica e il ballo, che accomuna nonni e padri dei quattro, nonché Julia Stanley, la madre di John. Da Liverpool e dalle famiglie arriva in dote ai quattro Beatles un notevole “capitale culturale,” un concetto quest’ultimo elaborato da Pierre Bourdieu e utilizzato con acume da Fasce: la dotazione di risorse culturali in possesso di un individuo, spendibile nei progetti o consumi che più gli aggradano. Grazie a Liverpool e alle rispettive famiglie, John, Paul, George e Richard, (in arte Ringo), nati insomma nel posto giusto e con i parenti giusti, possiedono, in buona quantità, proprio il tipo di capitale culturale che serve all’impresa in cui si gettano quando si affacciano alla vita adulta. Di loro, però, ci mettono la capacità di investirlo in un progetto, i Beatles per l’appunto, che lo restituirà moltiplicato a dismisura.

L’azienda Beatles funziona perché mette a frutto tre elementi eterogenei ma disponibili in abbondanza per chi, negli anni Sessanta, sapesse cogliere lo spirito dei tempi: tecnologia, struttura demografica delle società occidentali e nuova organizzazione del lavoro e del consumo. Col primo elemento si intendono sia i sofisticati strumenti disponibili nelle sale d’incisione sia, soprattutto, la radio a transistor. L’importanza di quest’ultima non può essere sottolineata abbastanza: libera l’ascolto della musica, di cui la radio era nei Sessanta il medium più comune, dal vincolo con un luogo stabile. È un processo che noi umani dell’era digitale possiamo capire perfettamente perché si è ripetuto quarant’anni dopo nella telefonia con la comparsa dei cellulari e la rottura del legame fra conversazione telefonica e postazione fissa. La radio a transistor dell’epoca dei Beatles permette ai giovani di ascoltare la musica nei territori della loro socialità, lontani da famiglie e genitori. E qui si inserisce il fattore demografico. Negli anni Sessanta quei giovani, figli e figlie del boom delle nascite del secondo dopoguerra sono tantissimi: loro è il maggior peso relativo nella struttura per classi d’età delle società occidentali. Ma per effetto del relativo benessere che si diffonde in quel tempo in occidente, i giovani in quanto tali, compresi quindi, entro certi limiti, anche quelli nati da famiglie operaie, sono per la prima volta nella storia anche consumatori. Nel nostro caso, soprattutto di dischi. Dagli anni Cinquanta in poi l’industria discografica può appunto contare su un nuovo materiale, il vinile, che sostituisce la gommalacca dei 78 giri: si possono così produrre a costi contenuti dischi a 33 e a 45 giri, più resistenti e durevoli di quelli realizzati col vecchio materiale. Un nuovo tipo di grammofono, infine, per sui si conia un apposito termine, il giradischi, li suona entrambi, “con un’esplosione delle vendite […] che vede il fatturato discografico raddoppiare negli Stati Uniti fra il ‘55 e il ‘60”.

I Beatles, ci spiega Fasce, fanno fruttare al massimo il loro capitale culturale perché lo investono in un’impresa che cresce al crocevia delle tendenze tecnologiche, demografiche e commerciali che ho appena descritto. Se ci sono riusciti col successo che tutti conosciamo è perché hanno operato come un collettivo, un’entità le cui capacità trascendono la semplice somma delle doti individuali dei suoi membri. Con la necessaria precisazione che il collettivo “Beatles”, così come agisce nella Musica nel tempo, comprende altri membri in aggiunta ai quattro suonatori di Liverpool. Il manager del gruppo dal 1962 al 1967, Brian Epstein, e il produttore EMI George Martin sono decisivi non solo nell’orientare le scelte commerciali della band, ma anche quelle artistiche. Basti pensare alla decisione, presa dai due nell’imminenza della prima seduta di registrazione nel settembre 1962, di sostituire Pete Best, il batterista dei due anni precedenti, con Ringo Starr. Fondamentali nel collettivo sono anche i tecnici del suono della EMI, al lavoro nelle sempre più importanti, a scapito dei concerti, e lunghe sedute di registrazione. Due su tutti meritano una citazione: Ken Townsend and Geoff Emerick. Nel circuito industria culturale-tecnologia-nuovi comportamenti giovanili-crescita dei consumi di massa che ho cercato di delineare sulla base del racconto di Fasce, il collettivo Beatles riuscì ad agire come un elemento attivo di prim’ordine. All’interno di quel circuito, i Beatles hanno infatti esercitato un ruolo unico come acceleratori dei mutamenti culturali che hanno agitato il loro tempo. Questo perché i fattori di cambiamento di per sé attivi nel sociale durante gli anni Sessanta, una volta tradotti in linguaggio musicale dalla band venivano restituiti alla società come più leggibili, cioè più efficaci. Valga come esempio di questo interscambio virtuoso un episodio occorso a Berkeley, nel 1966, durante un raduno studentesco. Come racconta Fasce, “lo spirito di coesione collettiva necessario all’occasione “arrivò non dall’inno operaio degli anni 30, “Solidarity Forever”, ma “dal coro semplice e irresistibile (“We all live”) di “Yellow Submarine”.

Alla storia culturale degli anni Sessanta attraverso i Beatles, Fasce aggiunge il tocco sapiente di chi sa raccontare le condizioni materiali di vita all’interno di una data società, perché è consapevole di quanto contino anche nel movimento della cultura. In cosa consista questo tocco, perfezionato da Fasce nella sua esperienza di storico del movimento operaio negli Stati Uniti, è presto detto. Per due volte, mentre racconta la gioventù di Paul e George, Fasce si ferma a ricordarci come, all’epoca, il possesso del bagno in casa dividesse a metà la popolazione inglese. Oppure, nella descrizione delle reazioni del pubblico alla prima esibizione televisiva dei Beatles negli Stati Uniti nel 1964, si inserisce puntuale il richiamo al quinto di americani che di quel fatto nulla sanno semplicemente perché l’acquisto di un televisore non se lo possono permettere. Sono pennellate di questo tipo che rendono la lettura della Musica nel tempo un’esperienza unica: ci restituiscono una cultura coi piedi ben piantati per terra e ci regalano le informazioni necessarie a misurare la distanza effettiva fra il nostro tempo e quello dei fatti narrati nel libro.

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