La fortezza della solitudine

Simona Vinci, Nel bianco, Neri Pozza, pp. 208, euro 17,00 stampa, euro 9,99 epub

Simona Vinci in viaggio, seguendo il demone che la trasporta dagli incanti energetici della Sierra Leone a una delle regioni più remote esistenti sul pianeta: la Groenlandia. Dal sudore mischiato all’olio bruciato, dall’odore d’Africa la cui mitologia si è ampiamente (purtroppo) guastata, a un’altra mitologia che pareva immutabile fino a pochi anni fa, ma che ancora di più, oggi, si sta letteralmente consumando. L’ibernazione è stata risucchiata dall’avanzata antropica, l’isola ricoperta da uno spessore glaciale di migliaia di metri sembra stremata, e probabilmente non l’attendono le verdi foreste che (pare) la ricoprivano secoli fa. Ma anche questa, forse, è leggenda. Era il 2008 quando Vinci si fa calare dall’elicottero sul territorio in cui pochi alpinisti e scialpinisti si avventuravano in cerca di imprese. La scrittrice non tarda ad avvertire, nel pieno di quel deserto bianco e congelato, il “triste Artico” così come potrebbe essere raccontato – suggerisce Marzio G. Mian nell’introduzione – da Lévi-Strauss.

Nel bianco prende l’avvio, non casualmente, dentro le tenebre tropicali che arrivano presto quando il sole tramonta rapido. Freetown, Sierra Leone. Soltanto le lampade a olio cercano di disfare il buio intorno ai passi di tre scrittori che inseguono le loro storie: Vinci, Carlo Lucarelli, Marco Bettini, sono gli unici bianchi a guardare i corpi e le baracche e nulla è familiare mentre centinaia di cani rosa seguono le carreggiate con galline, uomini, donne, bambini intenti a camminare continuamente verso un luogo che, per un occidentale, è dappertutto. Il prologo africano dà la sveglia al brulicare dei pensieri che, in procinto di affrontare il vero viaggio, fanno sentire già esule e affamato e a rischio d’inedia. Doloranti per ferite vecchie che improvvisamente si riaprono e non c’è unguento o vaccinazioni o farmaci anti-tutto in grado di dar sollievo. Dopo una notte nera, la jeep arriva sull’orlo dell’oceano, in mezzo a “un mare di bambini sudici e bellissimi”. Dal Paese più povero del mondo, Vinci prende lo slancio e prepara l’attrezzatura. Per il grande Nord artico.

La partenza avviene dalla speculazione litoranea dei cantieri italiani affacciati sull’Adriatico, e già la severità di immagini e vite raccontate invade i pensieri e la preoccupazione sul da farsi: Jack London è fin troppo facile da rispolverare e ripercorrere nei sogni giovanili d’avventura. Ma ora si è adulti, e la faccia di Luigi Amedeo di Savoia, uno degli esploratori polari, risalta severa e cotta dal sole e dal gelo in una foto in bianco e nero dell’anno 1900. La scrittrice annota tutte le tappe di preparazione, le inquietudini e i dubbi, i ricordi delle voraci letture d’adolescenza. Improvvisamente la Groenlandia diventa un posto di cui mancano guide, poche paginette fanno poca storia, e tutto fa pensare che l’immagine sul mappamondo, quella che tutti conosciamo fin dall’infanzia, rappresenti davvero un luogo immaginario, un’enorme e frastagliata lastra di ghiaccio che riempie il mare sulla testa della sfera.

Islanda, acqua e terra neri, vulcani e vento, la prima tappa. Uno scalo che merita un allungamento del viaggio. Vinci s’immerge in leggende e storie poco conosciute o dimenticate, sente che in quei luoghi di latitudine alta altrettanto alto è il gioco delle forze, sia utili che sprecate, iniziando a capire che qualcosa non va per il verso giusto. Il linguaggio delle colonie umane s’imbastardisce e in ogni luogo del mondo le cose cambiano in fretta, la storia ha abdicato alla più gretta cronaca. Islanda: i nodi delle grandi reti planetarie s’incrociano qui, e non sarà un caso che i loro padroni hanno stabilito i centri nevralgici proprio nell’isola di ghiaccio e fuoco. Luogo ideale per infrastrutture informatiche, e di certo non è una bella notizia. La ricerca nelle cataste di libri non dà buoni esiti, nemmeno l’alfabeto un italiano riesce a decifrare. Reikjavík è preda di misteriosi venti, improvvisi e fatali, misti a odore di zolfo. I Troll sono ovunque, in decorazioni e oggetti vari, e per il viaggiatore è difficile sfamarsi, lì la vita inizia a mezzanotte. Partire verso la vita selvaggia? Un’unica strada percorre tutta l’isola in circolo, si va in un senso o in un altro. E ogni tanto rottami di auto eretti a monumento avvertono il guidatore di stare attento, molto meglio che inutili cartelli stradali. Il paesaggio non cambia, sempre le stesse cascate maestose, gli stessi cavalli macrocefali (non particolarmente belli), mandrie di pecore, fino a una lunga spiaggia in fondo all’isola dove si può guardare l’oceano in tempesta. Ma gli amanti del mare, come potrebbero definire bellissima una striscia di sabbia nera davanti a un’acqua tempestosa da cui emergono “inquietanti colonne di basalto”? Senza contare la minaccia costante di un’eruzione vulcanica. La viaggiatrice affonda, cercando di rincuorarsi, nella fitta nebbia che avvolge una piscina termale. Il rischio è quello di bollire dentro una vasca satura di silicio bianco e pastoso. Il mondo scompare.

Il mare s’immobilizza avvicinandosi alla Groenlandia, questa è la prima impressione che giunge al lettore direttamente dallo sguardo di Simona Vinci. “Una pelle rugosa irta di scaglie trasparenti”. La stanza della guest house è piccola e con una finestra stretta e lunga. Il villaggio appare in tutta la sua diversità, gli abitanti si disperdono sul ghiaccio in attesa di fare un buon bottino di pesce davanti ai loro buchi aperti nel ghiaccio. Nessuno parla alla scrittrice, ma gli abitanti sorridono e qualche bambino è incuriosito. L’alcol, la birra, sono la peste dei luoghi, tutti bevono anche in tenera età, e il terreno è invaso da lattine vuote. Gli Inuit sono come gli indiani d’America, l’alcol non viene metabolizzato e il disastro di queste civiltà ora si accompagna al mutamento climatico. L’implacabilità della segregazione prima, lo scioglimento dei ghiacci dopo. Vinci capisce ben presto – ed è sconfortante – di trovarsi davanti a un’alterazione sociale che rende ancora più complicato comprendere fino in fondo (in quanto a farsi capire, pochi conoscono l’inglese) questo paese. Ci sono gli uomini, ma manca il racconto. Lo sforzo di costruirne uno quasi si piega di fronte al paesaggio eternamente uguale e sempre diverso, così come cambiano posizione da un giorno all’altro gli iceberg e si trasforma la neve che cade. Mille varianti di forma e altrettante parole in lingua per descriverli. Tutti ricordano Il senso di Smilla per la neve (Mondadori, 1994), di Peter Høeg. E Rigoni Stern nelle nevi intorno all’altopiano di Asiago. Gli Inuit sono un elemento naturale di quella realtà, cosa che ne decreta perdita e rovina. Il bianco in cui ora è immersa è il bianco di Moby Dick, la terrificante assenza di colore è la stessa che viene incarnata dalla balena, il mistero più profondo della vita e della morte.

Il viaggio nel tempo, epocale e climatico, nelle sue anse e nei fiordi congelati di quelle terre comprende qualcosa che porta dritti a domande primordiali, alla comprensione improvvisa di quanto la vita non sia una saga ma tutto il sacro e il profano ereditato dalle migliaia di generazioni precedenti. Uno scrittore che posto ha nel mondo? Vinci se lo chiede mentre tutto viene già avviluppato nel ricordo. Improvvisamente i gas di scarico di Bologna le fanno ritornare in mente la notizia che Trump, il presidente degli Stati Uniti, vorrebbe acquistare la Groenlandia. Come fosse un plastico da regalare al figlio. Un pacchetto che comprende le migliaia di Inuit. Ma è Trump: e il cartoon è assicurato. E questo libro racconta benissimo quanto l’Artico sia travolto dalla vorace Storia che stiamo vivendo. Era il 2008 di Vinci. Il 2020 di tutti noi è mille volte peggio.