Giovanni De Luna. Un’occasione perduta: l’irripetibile vicenda del Partito d’Azione

"Credo che l’esperienza azionista sia irriducibilmente conficcata nel cuore del Novecento e come tale non più riproponibile oggi. Quello che è rimasto vitale è la dimensione individuale degli azionisti, la loro carica ideale, la loro progettualità politica, una loro permanente inquietudine".  Giovanni De Luna in occasione della ristampa di '' Il Partito della Resistenza. Storia del Partito d’Azione 1942-1947' (UTET) uscito per la prima volta nel 1982 all’epilogo della stagione dei movimenti, nel momento in cui fu certificata la loro definitiva sconfitta politica.

Non è usuale per un libro di storia giungere alla quarta edizione a distanza di quarant’anni dalla prima uscita. È il caso di Storia del Partito d’azione di Giovanni De Luna, tornato nelle librerie con il titolo Il Partito della Resistenza. Storia del Partito d’Azione 1942-1947 (UTET, pp. 481, € 20), uno studio seminale che per impianto e novità metodologiche ha schiuso le porte a molti altri.

Come nota Chiara Colombini nella prefazione, rileggere oggi quest’opera vuol dire anche misurarsi con tempi diversi: il quinquennio in cui si dispiega l’attività del PdA, certo, ma anche il momento in cui lo studio prese forma (la seconda metà degli anni Settanta, la prima edizione è del 1982), l’intervallo cronologico segnato dalle riedizioni del volume (1997-2006), e, inevitabilmente, l’oggi.

Poiché, come avviene per ogni importante saggio storico, affrontare questa ricerca significa ripensare non soltanto il nostro passato, ma il suo divenire nel tempo, così da fornirci utili chiavi per comprendere il presente.

Le ragioni per cui questo volume si segnala come pietra miliare sono presto dette: innanzitutto, la ricchezza del suo apparato critico, notevole sin dalla prima edizione e accresciuto con le successive, sino alla presente, che tiene conto dei contributi apparsi nel frattempo, con i quali l’autore fa il punto della situazione soprattutto nelle corpose note, che oltre ai consueti rimandi bibliografici hanno anche la funzione di indicare al lettore la rotta in un mare vasto e non di rado burrascoso. Poi l’uso stringente e minuzioso delle fonti, sia scritte che raccolte oralmente intervistando alcuni dei protagonisti, tramite cui si dipana l’intreccio delle molteplici componenti che caratterizzarono l’esperienza del PdA – la corrente democratico liberale, il liberalsocialismo, Giustizia e Libertà –, si indagano gli sviluppi del dibattito interno e le ipotesi politiche perseguite. De Luna dimostra un’ammirevole lucidità nel rintracciare un percorso quanto mai intricato ed eterogeneo, reso ancor più complicato da un momento storico che vedeva l’Italia occupata e divisa in due tronconi, dove operavano organismi tra loro molto diversi (il partito del Sud, la direzione romana, l’esecutivo Alta Italia), a cui poi si aggiunsero nuovi aggregati spesso ideologicamente trasversali (federalismo, meridionalismo). Dunque, un quadro assai mutevole, ulteriormente confuso dall’evoluzione incalzante della guerra e dai condizionamenti derivanti da una scena politica in cui agivano entità nazionali e straniere con fini diversi e contrapposti (organismi alleati – inglesi e americani, che spesso seguivano politiche divergenti –, la monarchia italiana e il governo centrale che ne era espressione, i partiti politici riuniti nel CNL).

La ricerca, che ovviamente risente del periodo in cui fu elaborata, si basa su un preciso fondamento interpretativo: le idee, i programmi, le linee strategiche dei partiti nascono dal basso, si rispecchiano nei comportamenti collettivi dei soggetti sociali, sono determinati e condizionati dalla necessità strategica di incarnare i progetti di base. La politica portata avanti da un partito è insomma una questione di cifra identitaria. Da quest’opzione storiografica deriva la scelta di delineare le contraddizioni strategiche del Partito d’Azione, le difficoltà concettuali di dotarsi di solide categorie di analisi della complessa situazione sociale e politica in cui si andava costituendo, privilegiando l’esame delle sue pratiche organizzative, delle soluzioni politiche proposte, perseguite o abbandonate, figlie di una realtà magmatica in continuo divenire, sottolineando anche le potenzialità inespresse e tenendo sempre presente la dialettica esistente tra centro e periferie. Una metodologia che, unitamente alla compiuta analisi delle numerose identità riunite nella galassia azionista, permette all’autore di cogliere in tutto il suo portato la crisi profonda che attraversò il sistema politico italiano negli anni del conflitto bellico, e la possibilità intravista dalle élite intellettuali più sensibili ed avvertite – in particolare nel biennio 1943-44 – di un cambiamento radicale, di una più marcata discontinuità rispetto agli assetti politici e istituzionali del fascismo ma anche di quelli liberali anteriori alla dittatura. Così come delineato dall’autore, il Partito d’Azione fu testimone e protagonista di quella breve stagione, ne mise in luce potenzialità e limiti. Fu “una scintilla che non si propagò in un incendio, subito spenta dalla glaciazione della guerra fredda e dalla logica novecentesca della massificazione delle forme della partecipazione politica”, come si legge nell’introduzione all’edizione del 2006, riportata anche in quella presente.

La severità di analisi di un quadro storico così complesso e dinamico, presentato al lettore con prosa lucida ed elegante, è il contraltare di una necessità, sintetizzata dalle parole di Chiara Colombini: “Comprendere le ragioni che impedirono al PdA di tradurre l’impegno dispiegato dalle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà in un bacino significativo di militanti e voti” – nella felice immagine di De Luna, il mancato passaggio dal “partito del fucile” al “partito delle tessere”. E dietro questo sforzo ermeneutico s’intravede il tentativo di porsi rispetto alla ricerca storica con il medesimo piglio etico dei protagonisti dell’azionismo, quasi nella consapevolezza che per comprenderne a fondo le più intime motivazioni ideali bisogni assumere lo stesso rigore morale caratterizzante le scelte politiche e di vita di molti di essi, che trovarono nella lotta resistenziale il campo di massima applicazione e risultato.

È probabile che dietro i criteri che hanno guidato questa complessa ricerca vi sia anche l’esperienza diretta dell’autore nell’agone politico in una stagione molto intensa della biografia sua e di tutta una nazione – quella degli anni Settanta, quando acutamente si avvertiva il tradimento degli ideali resistenziali e della tensione morale che aveva caratterizzato molti dei suoi artefici.

Non è un libro semplice, questo, non è semplice la storia che narra. Eppure, mai come in questo tempo avvelenato da minacciosi rigurgiti neofascisti, del tutto privo della capacità di visione di altri mondi possibili, di progetti politici alternativi a un neoliberismo selvaggio ed inumano, sarebbe importante impegnarsi. Mai come in questo tempo in cui il mondo politico è “ansioso di trasformare i valori in interessi, i cittadini in consumatori, lo spazio pubblico negli ambiti recintati del mercato” (così nell’introduzione del 2006) sarebbe fondamentale tornare all’esempio di quelle donne e di quegli uomini che con le loro riflessioni teoriche e le loro scelte esistenziali resero possibile la realizzazione di quel che allora era soltanto un sogno: abbattere una feroce dittatura, sconfiggere un nemico invasore, creare un Paese democratico, una repubblica fondata sulla giustizia e sull’uguaglianza ideale e fattiva. L’augurio, dunque, è che tanti giovani aprano queste pagine, trovino fonte d’ispirazione per le loro vite nelle avvincenti storie che vi sono narrate. È l’unica speranza per un futuro meno fosco dello squallido presente in cui siamo immersi.

 

INTERVISTA

Cosa la spinse, in una stagione caldissima come quella degli anni Settanta, che la vedeva politicamente impegnato in prima persona, a studiare a fondo l’esperienza azionista e cosa l’affascina tutt’ora di quella storia e dei suoi protagonisti?

Il libro fu scritto tra il 1978 e il 1981, dunque all’epilogo della stagione dei movimenti, nel momento in cui fu certificata la loro definitiva sconfitta politica. Era finita l’esperienza di Lotta Continua in cui avevo militato e mi interessavano le ragioni degli sconfitti. Lo studio del PdA fu anche il modo per elaborare il lutto di quella sconfitta.

Nella prefazione alla terza edizione del libro, nel 2006, lei scriveva con lucida amarezza che nel nuovo panorama politico e morale la scintilla azionista era ormai spenta, parole che appaiono ancor più drammaticamente attuali. Eppure, dal suo studio sembra trasparire la speranza che il percorso politico e umano degli azionisti possa ancora porsi come riferimento. È un sentito augurio, dovuto anche al momento in cui fu elaborata e scritta la sua ricerca, che tra l’altro si chiude con la suggestiva immagine dell’azionismo come “fiume carsico”, “corrente sotterranea destinata ad alimentare in permanenza l’intera vicenda della sinistra nell’Italia repubblicana”?

Credo che l’esperienza azionista sia irriducibilmente conficcata nel cuore del Novecento e come tale non più riproponibile oggi. Quello che è rimasto vitale è la dimensione individuale degli azionisti, la loro carica ideale, la loro progettualità politica, una loro permanente inquietudine. 

Sempre in quella prefazione lei notava come un paradosso il fatto che in chiave storiografica il suo studio era stato considerato come una sorta di monumento storiografico al PdA, cosa che dimostrava “la divaricazione tra gli stereotipi che rimbalzano nell’uso pubblico della storia e i risultati effettivi della ricerca”. Tale “divaricazione” si è ristretta o addirittura allargata in questi 25 anni?

È aumentata, grazie alla rete. È aumentata l’ignoranza, ma soprattutto il pregiudizio, il “credere di sapere senza sapere”. E la ricerca storica, nella sua complessità, fa molta fatica a scalfire il pregiudizio.

Questa sua ricerca si è dimostrata estremamente feconda, e nei quarant’anni dal suo apparire ha dato luogo a nuovi percorsi di ricerca sull’argomento. Cosa possono produrre le nuove sensibilità storiografiche nel campo degli studi sul Partito d’Azione e sul suo lascito politico, etico e culturale?

Studiare in maniera più ravvicinata gli azionisti, le loro singole biografie, cercando di strappare al loro insieme il segreto della formazione di una classe dirigente.

Volendo sintetizzare un quadro complesso e articolato, quali sono le maggiori differenze tra giellismo e azionismo?

Il contesto in cui agirono: la cospirazione antifascista da un lato (1930-1937), la Resistenza dall’altro (1942-1945). Furono due scenari diversi, che resero necessarie soluzioni politiche e organizzative diverse.

Il suo libro ricostruisce le molte e talvolta contraddittorie componenti culturali e ideologiche che animavano il Partito d’Azione: è corretto affermare, storicamente, che questa caratteristica fu al contempo elemento di peculiare ricchezza e tra le cause della sua precoce dissoluzione?

Certamente, anche se io ne ho sottolineato più la ricchezza che le criticità. Gli ossimori che affollano l’esperienza del PdA (liberalsocialismo, comunismo libertario, meridionalismo rivoluzionario, etc…) sono il segno di una ricerca continua, senza dogmi predefiniti…

Lei condivide da un punto di vista storico l’analisi di molti aderenti al Partito d’Azione che consideravano il fascismo come punto di approdo delle soluzioni moderate e autoritarie del processo risorgimentale?

Si, credo la categoria dell’“autobiografia della nazione” sia ancora oggi l’interpretazione più vitale, soprattutto se confrontata con le altre che allora furono messe in campo (il “fascismo-parentesi” di Benedetto Croce, il “fascismo come reazione di classe” del PCI).