Lanfranco Caminiti / Senza

Lanfranco Caminiti, Senza, minimum fax, pp. 131, euro 15,00 stampa

Questa è la vita: sempre una forma
leggermente distorta di letteratura
(P. Roth)

Disperante come l’epilogo del secondo concerto per violino di Dmitrij Šostakovič o talune pagine di Horcynus orca di Stefano D’Arrigo in cui l’accoppiata amore e morte pare seguire alternativamente ora la lentezza del flauto ora l’impennata del violino in un clima di lancinante solitudine creata ad arte da bassi, contrabassi ed archi: “vedeva solo saettare impazzita fra le onde una feruzza che scappava alla morte dalla morte, in un frenetico aggrovigliato zigzag, schiumeggiante di sangue”. Solo che al posto della Mezzogiornara, la feruzza di Caitanello, c’è questa volta Paola, la donna di una vita del nostro Autore. Più che un romanzo, un memoir in forma di lunga lettera utile a riordinare tutto il complicato discorso evocato già nel titolo, Senza, allusivo nella sua nudità preposizionale allo svuotamento di una vita e di un mondo. A partire dalla nuova condizione di vedovo –  da viduus, privo, come ci viene ricordato –  in cui all’improvviso e inaspettatamente Caminiti si trova calato e che potrebbe vivere in forma patologica. Un rischio, questo, reale di cui la forma prescelta del memoir potrebbe essere un primo segnale considerandolo il modo di scendere agli inferi per riportare alla luce l’amata. Indicibile il dolore per via della sua materia oscura, dicibile il lutto perché fatto di pensieri, di gesti, di movimenti, di relazioni e interazioni. Se proprio di romanzo vogliamo parlare secondo la prima di copertina, è a questa rimemorazione che dobbiamo pensare. E l’elenco è lungo a partire dalle cose di lei, ad esempio le scarpe, i romanzi della Munro e poi quelli di Oz, della Oates, della Lessing, della Lahiri, il maglione rosso ciliegia a coste inglesi, la vecchia radio Geloso. In aggiunta, tutto quanto ancora trasforma l’assenza in presenza, ad esempio lo scricchiolio del gradino sulla scala, le mollette dei panni, i piatti spaiati. Per non parlare delle abitudini che continuano a scandire il ritmo della settimana come la puntatina al mercatino dell’usato il lunedì, la Settimana enigmistica il giovedì, la visita dal pescivendolo un altro giorno oppure dei gesti sempre uguali, utili a riempire la giornata, come svegliarla col caffè, prepararle la colazione, tirando fuori dal frigo lo yogurt un po’ prima perché non fosse troppo freddo. Rimemorazione non del passato remoto – appena un cenno al primo incontro, scarne le notizie sulla pur frenetica ed intensa attività politica lungo tutto gli anni Settanta, nessun cenno all’arresto, al movimentato processo, all’esperienza carceraria, bypassati allegramente gli anni Ottanta e Novanta e tutto il primo decennio del nuovo secolo – ma di quello più prossimo che principia con l’apprestamento del buen retiro, la casa ereditata dai genitori di lei e presto trasformata in un luogo caldo, sicuro, amato, aperto, goduta assieme solo pochi anni per trasformarsi da lì a poco in regno dell’assenza.

Indicibile invece il dolore. Che non significa però che Caminiti rimuova il problema. Intanto ne indica il luogo dove scovarlo; nel corpo, dice, più precisamente in petto dove il dolore cerca sfogo e si palesa in forma acuta e terribile. Scopriamo così il motivo per cui il dolore è sempre una faccenda personale: perché quel corpo è il tuo corpo che al pari di tutti gli altri corpi non può immaginare una totalità di assenza ma solo viverne i singoli frammenti, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto. Non c’è solo il dolore, come una dimensione unica, totale: c’è la somma di questi continui, minuti, pervasivi dolori.

A me pare che questa esperienza personalissima del dolore non abbia nulla da invidiare, quanto a radicalità, al dolore di Giobbe che la fede in Dio gli rende alla fine comprensibile e accettabile. Ma la fede e il dolore sono la stessa cosa? Si può avere fede solo attraverso il dolore? Il dolore è la via per la fede? Dio non ha mai abitato il buen retiro.  Dio non è nel mio cuore, non è nella mia lingua, dice Caminiti. A quell’io ti farò domande e tu mi istruirai che Giobbe rivolge a Dio, il Nostro replica: cosa potrei chiedergli? Cosa può dirmi che io non sappia?

Essere dolente è una condizione umana, sostiene Caminiti. Niente più che una stilla di saggezza che anche Giobbe avrebbe condiviso; meno, forse, la conclusione tutta materialistica che Caminiti ne trae: il «peso» del dolore è esattamente identico al tuo modo di stare al mondo. Che non dipende solo da te, ma dall’intreccio di relazioni che sei in grado di costruirti attorno, meglio se con qualcuno a cui appoggiarsi. Sì, un perno che tutto regge. Nel suo caso, Paola, ispiratrice di quella legge morale senza la quale il modo di stare al mondo perde di significato: perché io dovrei preoccuparmi della sua salvezza? Morta lei, che muoia il mondo. Poche righe prima: per me può andare a sfracellarsi con qualche meteorite – non me ne importa nulla. Considerando la sua trascorsa militanza, una conclusione a dir poco sconcertante eppure comprensibile alla luce di quest’altra stilla di saggezza: il dolore riconfigura il tempo e svuota finanche lo spazio del mondo.  È quanto registra dopo che Paola ha smesso di abitare il buen retiro e inopinatamente qualche cortocircuito di casualità provvede a ricordargliela.

Se la fede, si sa, è sostanza di cose sperate e in suo nome infuturiamo la vita, di contro l’amore fa accadere il mondo qui e ora, permettendo di viverlo al presente momento per momento. Avevi appena compiuto sessantanove anni. Quarantaquattro di questi li avevi vissuti con me – e io ti amavo ancora con la stessa intensità … Ti amo ancora. Ma di quale amore qui si tratta? Di un amore che era anche un patto, dell’intelligenza e del cuore secondo le parole del Nostro. Alla fine, un buon affare facilmente riassumibile nell’arricchimento della propria e dell’altrui autonomia: di spazi, interessi, curiosità, persino del proprio corpo, dello spazio che il proprio corpo occupa nel mondo.

Il tema dell’amore occupa la lunga lettera dalla prima all’ultima pagina; del memoir è il reticolo tematico come i semitoni nei due primi movimenti del concerto di Šostakovič. Nonostante le buone intenzioni del suo autore di rivolgersi all’amata con letizia per darle sollievo, per chi legge il clima espressivo è di solitudine, soprattutto il suo tristissimo epilogo col suo incipit che ricorda da vicino quello de L’uomo senza qualità di Musil. Ce lo ricordiamo? Sull’Atlantico un minimo barometrico … Qui, più prosaicamente: Quel giorno, la temperatura massima era di 26° C …  

Il patto è a tempo determinato; dura, quando va bene, il tempo del matrimonio con la parola che passa alla morte. Finché morte non ci separi, è scritto nel patto. Questo della morte è l’altro grande tema del libro, una specie di basso continuo che introduce e accompagna la storia d’amore di Paola e Lanfranco. La morte come sostantivo e come verbo all’infinito e al participio passato. Nel primo caso se ne registra l’ineluttabilità. Semplicemente la morte esiste. Nel secondo caso viene distinto il modo verbale dalla sua forma nominale. Così se «morta, è morta», è espressione orribile – si dice di una radio, una lavatrice, un’auto – non lo è «morire» ché ti rende alla natura del mondo, alle stelle che si spengono, agli uccelli piumati dal lungo becco sottile e verde che si estinguono, ai soli che tramontano al largo delle porte di Orione. Caminiti non si spaccia per filosofo della morte e neppure abita il mito come il suo Caitanello; insomma, inutile cercare nel suo memoir una qualche traccia di Heidegger o di Leopardi anche se un pensierino su quest’ultimo è lecito farlo per e non solo per quell’indisgiungibile nesso di amore e morte ivi apertamente conclamato ché leopardiano è pure il tema dell’indicibilità del dolore, in particolare se grande. Piuttosto, come si diceva, qualche stilla di comune saggezza, tipo: tutti dimenticano prima o poi. Tutte le morti si possono superare, questa è la crudele semplicità delle cose. È accaduto al dolente che lui è stato doverla esperire fino in fondo.

Ma che sia il lettore – e non altri per lui – a scrutare questo fondo. Personalmente, arrivato alla fine di una lettura fatta tutta d’un fiato, ho avuto sentore che proprio la conclusione scelta cancelli l’illusione di un qualche segno di speranza ed evitati al suo Autore il rischio del patetico. Perché altrimenti, mi domando, l’adagio-allegro del terzo movimento avrebbe accompagnato la mia lettura? La vita dello scomparso, dice Caminiti, inizia un attimo dopo la morte; poi inizia la vita scomparsa. Che riguarda in prima persona il dolente. E Paola? Meno di un ramo secco  da cui  niente germoglia. Io non so il tuo aspetto oggi. Non so neppure dove sei. Non so quale sia la tua forma adesso. E cos’è scomparso prima – il tuo sorriso, i tuoi occhi, le tue labbra, i tuoi seni, i tuoi fianchi? Io sto andando avanti, tu no. Questo è il tradimento. Per qualche tempo Senza resterà sul mio comodino.