I corpi e la Storia

Leïla Slimani, Il paese degli altri , tr. Anna D'Elia, La Nave di Teseo, pp. 352, euro 19,00 stampa, euro 9,99 epub

Nel 1944 Mathilde, una giovane alsaziana, s’innamora di Amine, volontario marocchino nell’esercito coloniale francese al seguito delle truppe alleate. Questo amore si manifesta sin da subito come un atto di ribellione della donna che non intende seguire la strada, allora obbligata, per le ragazze di quell’epoca. Si sposa e alla Liberazione si trasferisce con il marito a Meknes, nella tenuta agricola ereditata dal padre di lui.

Selma, la bellissima sorella minore di Amine, nutre i suoi sogni di libertà frequentando clandestinamente i ragazzi e gli uomini che la corteggiano. Aïcha, la figlia maggiore della coppia protagonista, frequenta una scuola cattolica a Meknes, unica meticcia tra le scolare, dove le compagne francesi ricche la umiliano con i loro comportamenti e con i loro commenti. Il suo atto di riscatto diventa la pratica quasi mistica di una religione che non appartiene alle tradizioni della famiglia paterna.

Il cambiamento del ruolo delle donne nella società e la dominazione coloniale sono i grandi temi di questo romanzo, che costituisce il primo tomo di una saga familiare a carattere autobiografico e che indaga il primo decennio di vita dei protagonisti, dal 1946 al 1956, fino alla soglia dell’indipendenza del Marocco.

Le donne di questo romanzo sono tutte figure forti, coraggiose, che lottano per la loro emancipazione: finanziaria e professionale per Mathilde, sessuale per Selma, scolare per Aïcha. Gli uomini d’altro canto sono personaggi irrisolti e lacerati da crisi d’identità: Amine, sposato a una francese, proprietario terriero che utilizza operai marocchini, è assimilato dagli autoctoni ai coloni e disprezzato dai francesi perché marocchino; il fratello Omar lo disprezza perché ha sposato una donna proveniente dalle file degli occupanti il suo paese e dunque partecipa alla lotta clandestina per la liberazione del Marocco.

La violenza della dominazione coloniale è descritta attraverso la dimensione sessuata dei rapporti di genere. Come ci ricorda Giuletta Stefani, la colonia è spazio reale, ma anche simbolico, di recupero e di realizzazione della mascolinità. La sensualità esotica di Amine, la bellezza fuori dai canoni di Mathilde, il desiderio suscitato intorno a lei dalla giovane Selma, le punizioni corporali esercitate su sé stessa dalla piccola Aïcha: i personaggi di questo romanzo sembrano dissolversi tutti nei loro corpi, indagati in maniera quasi ossessiva da Slimani, per ribadire che l’incontro tra i sessi nasconde sempre rapporti di potere, anche al di là della dominazione coloniale. Ma il colonialismo, con le sue ingiunzioni, si avverte ovunque nel romanzo, che non a caso riporta come sottotitolo La guerre, la guerre, la guerre, parole di Selma che, facendo il verso a Rossella Scarlett O’Hara di Via col vento, deride la pulsione bellica degli uomini: “non pensano mai alle cose serie”. La solitudine condivisa dai protagonisti del romanzo è frutto della dominazione coloniale, a loro non è permesso riconoscersi interi, appartenenti a una sola parte in conflitto. Una solitudine che schiaccia i protagonisti nelle rispettive lotte di liberazione personale, e che li rende forti rispetto alla comunità di appartenenza, ma segnandone irreparabilmente la sconfitta. In uno dei passaggi più belli del libro, quando Mathilde ritorna in Marocco da un soggiorno francese dettato dalla morte del padre, le sue parole siglano questa sconfitta malinconica: “Adesso che si era decisa, ora che nessun ripensamento era più possibile, si sentiva forte. Forte di non essere libera”.

Apprezzabile senza dubbio la capacità di Slimani, autrice francofona di origini marocchine e pluripremiata in Francia, di far ruotare il romanzo intorno a problematiche femminili e coloniali, pur avvertendo seduzioni “manualistiche”, poco malleabili, su tali argomenti. Una rigidità meccanica a tratti ingabbia i personaggi in atteggiamenti caricaturali che vanno a discapito della loro originaria carica dirompente. Ma l’uso di un lirismo discreto, e le descrizioni paesaggistiche, sono l’aroma giusto di un romanzo che porta a riconoscere la troppo spesso dimenticata storia etnica del Marocco.