Marino Magliani / Una matrioska subacquea

Marino Magliani, Materiali onirici di un somarello marino, hopefulmonster editore, pp. 152, euro 12,00 stampa

Davanti a questi Materiali onirici, sembra corretto e al tempo stesso sbagliato presumere l’esistenza di una forte correlazione tra la collocazione editoriale e la qualità immaginifica profusa dall’autore in questo romanzo breve (che ha anche i tratti dell’apologo, della favola, nonché, certamente, della narrazione onirica). Da un lato, infatti, la collana “Pennisole”, curata da Dario Voltolini per la casa editrice hopefulmonster, ha avuto fin dal principio uno sguardo attento verso quelle scritture italiane contemporanee che si rivelano votate a una ricerca letteraria talvolta radicale, non spericolata ma senz’altro raffinata. Basti pensare alle prime uscite, con Tutte le camere d’albergo del mondo di Gherardo Bortolotti, nel 2022, o Stiratore di luce di Franco Stelzer, 2023, Premio Narrativa Bergamo 2024. D’altra parte, Magliani non ha dovuto imprimere una svolta immaginifica realmente significativa – non ha dovuto “calcare la mano”, in altre parole – rispetto alla propria scrittura, da sempre e in particolare con alcuni degli ultimi libri ( Cannocchiale del tenente Dumont, L’Orma 2021), vicina a questo tipo di estetica, pur sotto una superficie non immediatamente riconoscibile come tale.

È il libro stesso, in fondo, a costituire un’esplorazione che lascia presto la superficie – delle acque, in questo caso – per inoltrarsi nei fondali, che sono a un tempo marini e, di nuovo, onirici. Cambia, con questo slittamento, lo sguardo di Magliani rivolto al mare, da sempre sguardo a partire dalla costa (ligure, per nascita, olandese, per adozione, e di molti altri luoghi, per nomadismo) o dal mare aperto, ma in questo, appunto, sempre sguardo umano. In questo romanzo breve, invece, lo sguardo è quello di Pippo, o Pippocampo, il “somarello marino” del titolo, il cui nome rinvia certamente a quello dell’autore, ma non ne è alter ego sempre antropomorfo, anzi: Pippocampo è, soprattutto, il doppio del più noto cavalluccio marino, risultando così capace di attingere a un’esperienza del mondo che è dell’animale e al tempo stesso dell’alterità inconfondibile, e inafferrabile, che è propria della creazione letteraria.

Come in ogni favola convenzionale o meno, e da molto tempo a questa parte, la controparte umana è temibile nemica, sia nello sguardo curioso, ma avido di possesso, dei bambini sia nell’azione cinica e predatoria degli adulti. Pippocampo forse non ne è del tutto consapevole, ma almeno ci fornisce l’intuizione del fatto che la letteratura può stare da un’altra parte ancora rispetto a questi comportamenti umani. Tale straniamento continuo non impedisce, anzi rafforza il tentativo della narrazione di attraversare dialetticamente alcuni temi universali: il linguaggio animale e la lingua umana – mirabile un passaggio, a tal proposito: “Ricordava un dialogo tra suo padre e un ippocampo d’alto lignaggio. Costui aveva chiesto se credevano alle teorie raffinate dei linguisti, e il padre aveva soffiato sulla segatura e risposto: ‘Sa, signore, noi siamo gente che lavora’” – l’amore corrisposto e poi tradito – tra l’altro per una creatura marina chiamata Italia, con inevitabile stratificazione semantica, come in questo caso: “Che Italia rifiutasse approcci di qualsiasi specie, sì, era normale ma quel fatto di suscitare lei stessa il ripudio di una parte della popolazione era una cosa piuttosto insolita” – o ancora il desiderio di libertà nella fuga e la sua successiva frustrazione – chiaramente apparentato, per cui legge con la diserzione umana al centro del Cannocchiale del tenente Dumont.

I temi potrebbero essere molti altri ancora, in una scrittura come quella di Magliani che, come sintetizza argutamente Voltolini in chiusura di postfazione, rappresenta “una matrioska di sorprese”. In fin dei conti, si è catapultati dentro ad alcuni “materiali onirici” che talvolta storpiano, ma sempre con una certa gentilezza, la lingua, ricordandone la matrice fiabesca o infantile, come nel caso del personaggio del Pesiolino Azzurro (mancante dunque, e non per refuso, di una lettera e di un suono), talvolta portano un andamento generalmente “scabro, essenziale” (sono sempre parole di Voltolini) oltre la sua stessa superficie, e in generale cercano la sostanza della letteratura nel sogno, in un sogno ulteriore: “E poi raccontava i suoi sogni a lei, erano sogni legati alle narrazioni di lei, e a volte le diceva: ‘Sai, sono stanco’. Era stanco, e raccontarsi il mondo gli pareva un modo per stancarsi e poi poter riposare. Senza più spavento. Ma quando si svegliava, i morsi dello spavento lo trovavano”. Un conflitto tra letteratura e vita, questo, che verso la fine del libro devia dall’impianto apparentemente fiabesco e ci fa scorgere un orizzonte di senso entro cui collocare tutta la scrittura di Magliani e anche il nostro, prezioso e ineludibile, confronto con essa.