Michael Ende in versi

Micheal Ende, Il mercatino dei sogni. Canti di mezzanotte e ballate sottovoce, tr. Alessandro Fambrini, Elara. pp. 206, euro 16.50 stampa

“E ti chiedi perché ce lo dimentichiamo,
perché non ci crediamo
che siamo liberi come uccelli sul mare
e che possiamo volare.”

Leggendo gli scrittori che amiamo talvolta scopriamo come abbiano diverse anime, a seconda delle forme che frequentano nella loro scrittura.

Di Michael Ende conoscevo non solo i romanzi –lascio ad altri l’etichetta ‘per ragazzi’– ma anche i racconti e i saggi, questi ultimi pubblicati non molto tempo fa da Rubettino con il titolo Storie Infinite.

Dei romanzi faremo finta che si sia scritto in abbondanza –che io sappia, in Italiano, nulla. Ma almeno sappiamo di cosa parlano, essendo ormai MomoLa Storia Infinita parte dell’immaginario collettivo.

Più spinosi i racconti; troppo cupi per essere per bambini, troppo fantasiosi per essere considerati seriamente dalla critica, ma anche troppo immaginifici per essere ‘kafkiani’, pure se con Franz Kafka condividono qualcosa di più della lingua. In effetti lo scrittore cui Ende assomiglia di più è probabilmente spesso E.T.A. Hoffman, anche se nei racconti brevi il suo narrato si manifesta nell’enigma dell’immagine pura, quasi Ende figlio stesse cercando di raccontare i quadri di Ende padre.

Sui saggi, c’è poco da dire. Se come per me La Storia Infinita è stata una pietra miliare nelle vostre letture leggeteli. Parlano, tra le altre cose, della funzione dell’immaginazione nell’arte, della poesia nella vita, della beffa della ‘letteratura per l’infanzia’, e della bellezza della lingua Italiana, lingua che Ende parlava bene.

Arriviamo alle poesie. Com’è l’Ende poeta?

Dimentichiamoci per un momento chi sia Michael Ende, e dimentichiamoci persino di avere davanti delle poesie. Se fossero racconti, anzi, se fossero quadri, che cosa vedremmo? Eccovi una lista non esaustiva: fiori che seccano in prati polverosi; una marionetta che dialoga con una bambola; un uomo che manda un messaggio in bottiglia al suo cuore in esilio; un uccello nero su un albero in una terra di “sabbia e cenere impura”; giudici mascherati su una nave di notte; una ragazza di carta che ingiallisce nell’attesa di un amore. And so on.

Le liste sono gomitoli fascinosi, ma bisogna pur tentare sbrogliarne il cuore con un’interpretazione. Ebbene, due sono le parole, o meglio, i concetti, che continuano a presentarsi in queste poesie: Sogno e Infinito. Faremo in modo che siano per noi chiave e porta del suo mondo. Ma quale dei due è la chiave e quale la porta?

Partiamo da Sogno, Traum: questa parola è ovunque. Ci sono città del sogno, mercati del sogno, canti del sogno, mari del sogno, sogni d’amore, sogni di volo, pescatori di sogno, e quando non c’è la parola, c’è molto spesso quel senso onirico di possibilità, come se tutto ciò che accade sia allo stesso tempo simbolo inconoscibile e immagine impaziente di essere rivelata alla luce della ragione.

La parola Infinito invece non si trova spesso, è il concetto che si affaccia di continuo, qui come altrove nella sua opera, in forme diverse: un Infinito nello spazio, progressivo di spazi immensi, e un Infinito nel Tempo, nero d’eterno.

Invece di fare una nuova lista vi racconterò due poesie, facendo anche io un’operazione di traduzione, dalla poesia alla prosa, dal sogno alla veglia. Una di quelle che più mi ha colpito è La Ballata del Principe Or-Non-È-Niente, quest’ultima sì, traduzione brillante di Morgenland, che in Tedesco vale sia terra del domani, che semplicemente ‘oriente’. Proprio da questo doppio significato Ende costruisce la sua immagine: di un barbone che è un principe d’Oriente perché è il principe del Domani. Egli sostiene infatti di non essere davvero ‘presente’, ma solo un eco del suo se stesso del futuro. Il Principe di Or-Non-È-Niente vive, realmente e letteralmente nel suo futuro. Proprio per questo, unico tra gli uomini, egli è libero. “Il potere e l’onore per lui sono solo un sogno lontano”. Finchè un giorno lo trovano stecchito sulla panchina di un parco. È quello, capiamo, il futuro dal quale egli ci guardava con un sorriso benevolo. Non un tempo qualsiasi dunque, ma il tempo al di fuori del tempo, il tempo senza fine. Solo allora, scrive Ende, il barbone divenne reale per tutti, tranne che per i bambini. Questi infatti erano gli unici che erano sempre stati in grado di vedere Or-Non-È-Niente per ciò che realmente era.

(Perché i bambini? Scrivo questa considerazione tra parentesi perché tale deve rimanere nello studio di un autore come Ende, una parentesi. Ende si vede costretto a parlare di bambini, e talvolta esplicitamente ai bambini, perché spesso essi sono i soli che vedono le possibilità immaginifiche del mondo senza dovergli dare un senso e uno scopo a tutti i costi. Poiché pochi adulti ci riescono, da svegli almeno, questa capacità preziosa viene delegata ai più giovani. Che questo dialogo con loro venga visto dai più come un sintomo di inferiorità artistica, di appartenenza al ‘ghetto degli scrittori dell’infanzia’, per dirla come Ende, non è casuale: è sintomatico).

Seconda poesia, La Ballata della Vita Inutile di Jonathan Glib. Costui pare il contrario esatto del Principe Or-Non-È-Niente. Nato presumibilmente benestante, vive struggendosi nell’attesa di una vita che non arriva mai. Come il sultano de La prigione della Libertà, unico racconto Islamico di Ende, messo davanti a infinite scelte egli sceglie di non scegliere. Ma se per il Sultano quella scelta era la salvezza, per Glib sarà la dannazione, anzi, l’Ignavia eterna –peccato Dantesco alluso esplicitamente da Ende. Glib potrebbe amare una donna o un’altra, potrebbe fare il dentista o il fornaio… potrebbe; ma egli teme sopra ogni cosa il desiderio che “sopprime la possibilità.” In altre parole, Glib teme –proprio come il pianista Novecento– lo straziante potenziale dell’Infinito.

Eccoci ritornati a questa parola. Ricordiamo allora come ne La Storia Infinita essa non abbia quell’afflato benevolo e un po’ disneyano che le si è soliti attribuire. Nel più famoso romanzo di Ende la storia diventa unendlich precisamente quando Bastian si rifiuta di scegliere di entrare nel libro che sta leggendo (il libro della sua vita, ci verrebbe da dire) costringendo l’Infanta Imperatrice a costringerlo con “l’Eterno Ritorno”, una storia infinitamente e malevolmente ricursiva.

Insomma, la bellezza della poetica di Ende sta nel fatto che, come nel simbolo del Tao, ogni elemento immaginifico contiene il suo contrario, la salvezza come la dannazione. Glib è l’altra faccia di Or-Non-È-Niente: uno terrorizzato dall’infinito delle scelte, l’altro che del tempo senza tempo ne ha addirittura fatto il suo Regno.

In questo senso per Ende il Sogno, l’accesso interiore a ogni possibilità, è la chiave, e l’Infinito la porta. Porta che va richiusa in fretta, per chi la teme, o spalancata, per chi non ne ha paura. “Si è aperto l’occhio del Sogno,” scrive Ende facendo eco a Novalis. E cosa vede il Sogno?

Nel Sogno di Volare, forse –permettetemi l’acrobazia– la poesia più alta della raccolta, Ende scrive: “ti senti paralizzato e prigioniero, da una rete di regole, abitudini, e violenza”, “resterai in uno spazio stretto” finchè “non sogni il sogno che non muore mai”: cioè, di avere ali, di librarti in aria, di sentirti felice.

Alla cretineria di chi ancora parla di escapismo ogni volta che si parla di fantasia, Ende sembra rispondere che, precisamente, la sua letteratura è davvero escapista, alla lettera. Perché, come fa a essere libero chi non lo è, se non sognando di diventarlo? La fantasia, il Sogno, non ‘servono a niente’, se non a questo: ad attualizzare l’Infinito fuori e dentro di noi.

Secondo una certa lettura della cabala, Malkhut –il più basso dei Sefira, quello legato alla luna e simbolo dell’Immaginazione– è la parte dello spirito che può portare ovunque, anche dove non potremmo andare, persino dove non dovremmo. Ende è stato forse l’ultimo autore tedesco ad essere propriamente Romantico, cioè dotato di una fiducia illimitata nel potere dell’immaginazione. Nulla, letteralmente nulla ci è precluso, se sappiamo produrlo in immagini. Nella veglia, spesso lo dimentichiamo. Ma, come chiude Ende nella sua poesia, “nel sogno lo sai: non è un sogno”.

E ti chiedi perché ce lo dimentichiamo,
perché non ci crediamo
che siamo liberi come uccelli sul mare
e che possiamo volare.

 

Bibliografia

Ende, Il Mercatino dei Sogni, Elara, 2018
Ende, Storie Infinite, Rubettino, 2009
Ende, La Storia Infinita, Longanesi, 1983
Ende, Momo, Longanesi, 1993