Ad ogni nuovo libro di uno dei maggiori scrittori contemporanei – e DeLillo senza dubbio lo è – il mondo letterario si trova a vivere un’attesa collettiva di aspettative e curiosità, tanto più oggi, in un mercato globalizzato dove i mostri sacri della letteratura escono in contemporanea in tutto il mondo o quasi. Per Il silenzio, non so se a causa della pandemia, non è stato così. Recensioni e giudizi sono piovuti mano a mano dai Paesi dove il testo è stato pubblicato, insieme alle impressioni di chi lo ha letto in lingua originale. Il tam tam è partito e cominciato a girare qualche mese prima dell’edizione italiana, tradotta da Federica Aceto, con la professionalità e la consapevolezza di chi, avendo spesso tra le mani testi fondamentali, ha affinato sempre di più una competenza già a livelli superiori.
Si è già scritto e detto parecchio, insomma, de Il silenzio, romanzo breve, racconto lungo o novella che dir si voglia. Diciamolo subito: forse non ci troviamo di fronte a un capolavoro – personalmente ribadirei il forse – ma a un testo, accolto dai più come un testo profetico, destinato a rimanere a lungo un caposaldo della letteratura contemporanea. DeLillo è del resto un autore che ha cavalcato spesso il presente anticipando la direzione che avrebbe preso la società del prossimo futuro, e lo fa anche questa volta, senza che per questo diventi l’aspetto più interessante de Il Silenzio.
Siamo nel 2022, il giorno della finale del Super Bowl. In una New York semideserta con cento milioni di americani incollati alla TV per assistere all’evento dell’anno, Max e Diane – lui ispezionatore di scantinati di grattacieli, appassionato di football e di scommesse, già pronto alla maratona televisiva, lei ex insegnante di fisica in pensione che ha invitato Martin Dekker, uno dei suoi vecchi allievi più geniali –, stanno aspettando una coppia di amici al rientro da Parigi. Max e Diane convivono da trentasette anni, tanto che la donna dice parlando con Martin che tra un po’ non ricorderanno il nome e non faranno caso alla presenza dell’altro. E qui si introduce uno dei temi che si amplierà più avanti: la presenza che genera assuefazione, che sia di una persona o di uno strumento tecnologico, la routine che fa dimenticare quello che hai e usi. Sarà solo l’assenza a consentirti di conoscerne il valore.
Jim Kripps, perito liquidatore e Tessa Berens, autrice di poesie, marito e moglie, sono sul volo che rientra da Parigi. Sono gli amici attesi da Max e Diane, per vedere il Super Bowl. Il viaggio è lungo e Jim comincia a guardare lo schermo dell’aereo, posto sotto una cappelliera, in cui sono aggiornati continuamente la velocità, l’altitudine, le ore locali di Parigi, New York e altre capitali, la temperatura esterna, la distanza percorsa e l’orario di arrivo. Una serie infinita di numeri, cifre che prendono vita se ripetuti ad alta voce, come fa Jim che sembra voler dire a sua moglie che tutto quello che è misurabile può diventare concreto al di là dello schermo e dare certezze: i numeri sembrano dare un senso, una consistenza alla vita ormai ostaggio di un flusso ininterrotto di dati. A un certo punto Tessa parla di Celsius, l’inventore del sistema di misurazione della temperatura indicato sullo schermo, e dice di non ricordare né il nome né la nazionalità dello scienziato, e quando le torneranno in mente, di lì a poco, il marito le chiede se non ha per caso sbirciato di nascosto nel cellulare, senza considerare che si trovano ad alta quota. Lei risponde che l’informazione le è venuta fuori dal nulla, come se la memoria oggi non sia più un mezzo affidabile senza una verifica o un mezzo digitale per fissarla.
Improvvisamente l’aereo va in avaria, lo schermo si spegne e i numeri scompaiono, si parla di un incendio a un’ala e c’è bisogno di un atterraggio di fortuna. Nello stesso momento a casa di Max e Tessa è il collasso della tecnologia: schermi neri, niente internet, niente elettrodomestici per la mancanza di energia elettrica, niente pc o portatili, ascensori inutilizzabili e riscaldamento che si blocca. Buio pesto fuori dalle finestre. Max continua a fissare lo schermo della tv rammaricandosi di non poter sapere che fine farà la sua scommessa, e lo schermo nero per un attimo sembra riverberare gli ultimi spasmi di una civiltà che non sarà più come prima. Non è dato sapere se questo blackout generale riguarda solo Manhattan, tutta New York, uno o più Stati dell’America o il mondo intero. E da questo momento in poi l’attenzione di DeLillo punta un po’ ballardianamente al cambiamento dei protagonisti rispetto allo sconvolgimento del paesaggio esterno.
Scampato il pericolo, dopo l’atterraggio, Jim ha una ferita alla testa dovuta a un colpo su un finestrino dell’aereo, la coppia viene portata in una clinica affinché l’uomo sia visitato e medicato. Qui i due si chiudono in un bagno per fare sesso, forse per avere la conferma di essere ancora vivi.
“Dobbiamo ricordare di continuare a ripeterci che siamo ancora vivi” aveva esclamato Tessa a voce alta sul pulmino che li stava trasferendo dall’aeroporto alla clinica. Dopo una medicazione di fortuna si avviano verso l’appartamento dei loro amici che raggiungono agevolmente a piedi. Quando arrivano, sono accolti da sei candele accese in un appartamento che sta via via raffreddandosi, da un uomo, Max, che sta davanti a uno schermo nero, da una donna che sembra pendere dalle labbra del suo geniale ex allievo che sciorina via via tutte le possibili cause del blackout. Gli ultimi arrivati dicono che fuori c’è solo buio, niente lampioni, insegne, palazzi, grattacieli e finestre. Solo un quarto di luna nel cielo. Max che fissa sempre lo schermo della TV, a un certo punto non trova di meglio imitare i giocatori di una partita immaginaria mentre stanno facendo un’azione di gioco, farne la cronaca e replicare le pubblicità che sarebbero state trasmesse.
L’inquietudine si fa largo nella conversazione, frasi brevi e smozzicate, l’incapacità di conoscere la vera portata di quella che potrebbe essere un’apocalisse tecnologica crea un disagio palpabile. Martin continua il suo monologo sulle possibili cause del collasso tecnologico, cita a memoria brani della Teoria della relatività speciale di Einstein cercando di imitare la voce dello scienziato. Ed è la realtà, l’esistenza stessa a essere messa in dubbio da Martin quando dice “Guardo lo specchio e non so chi è la persona che ho davanti. La faccia che mi guarda non sembra la mia. Ma in fondo perché dovrebbe? Lo specchio è davvero una superficie riflettente? E la faccia che vedo io è la stessa che vedono gli altri? Oppure è qualcosa o qualcuno di mia invenzione?”
Max ha un certo punto decide di uscire, e il paesaggio di folla, della “massa” che si muove senza una meta lo sorprende: “In altri tempi, più o meno ordinari, c’era sempre qualcuno perso nel proprio cellulare, di mattina, a mezzogiorno, di sera, in mezzo al marciapiede, incurante degli altri che gli passavano velocemente accanto, completamente immerso e ipnotizzato, consumato dall’apparecchio, con gli altri che quasi gli andavano intorno per poi schivarlo all’ultimo momento; e adesso questi tossicodipendenti digitali non possono fare niente, i cellulari sono fuori uso, ogni cosa è fuori uso, completamente totalmente fuori uso”. Se non funzionano i cellulari tutto è fuori uso, come se non sapessimo più dove indirizzare gli sguardi.
La disgregazione sembra assalire ogni personaggio, ognuno comincia a perdere le proprie sicurezze: non poter verificare e di ricercare informazioni sembra aver eliminato ogni parvenza di attendibilità del reale per la mancanza di un contraltare virtuale. I protagonisti sembrano incapaci di comunicare anche verbalmente senza l’ausilio dei supporti digitali, come se la parola in se stessa non avesse più potere.
Nonostante la brevità di questa opera, sono evidenti i molti temi ricorrenti presenti nei romanzi precedenti: la paura dei protagonisti per una situazione non spiegabile che porta un senso di minaccia permanente, il trovarsi in una condizione fuori dell’ordinario in un mondo dove si cerca di avere tutto sotto controllo, l’ammasso di rifiuti tecnologici di una società capitalista che tende al consumo continuo. E i numeri, così spesso importanti per DeLillo nella sua cinquantennale carriera, i primi due titoli che mi vengono in mente sono il suo esordio con Americana (Einaudi, 2008) e La stella di Ratner (Einaudi, 2011), in un mondo dove tutto è misurabile, definito funzionalmente e costituito da numeri (dal sistema binario del PC alle frequenze televisive), sono forse loro a definire la nostra esistenza e non il contrario. E se la tecnologia ci lasciasse, infinita “massa” – vocabolo tanto caro allo scrittore americano –, di numeri che ci abbandona, creerebbe una immediata incomunicabilità interpersonale fino a compromettere quella con noi stessi. È la tecnologia oggi, indubbiamente, lo strumento più importante delle nostre comunicazioni e della nostra vita in generale.
DeLillo, come tutti i più grandi scrittori contemporanei, non vuole dare risposte né vuole giudicare, tanto meno fare la morale e dare un messaggio. E se ancora oggi scrive con una macchina da scrivere Olympia perché ha caratteri grandi che lui ha bisogno di vedere scritti su un foglio, se non usa il cellulare perché vuole continuare a pensare in modo tradizionale, potremmo dire analogico, se preferisce non usare internet nonostante la moglie lo faccia, non considera per questo un segnale di degrado quello che succede attorno a lui. In una recente intervista afferma che è una forma di progresso quella in cui viviamo. “Non desidero necessariamente tornare ai giorni precedenti il computer. Accetto quello che abbiamo e per molti versi ne sono sbalordito”.
Lo scrittore americano, come nei suoi romanzi precedenti, indaga nel presente con una lucidità impressionante, frasi e dialoghi con poche parole, quasi degli slogan, che segnano i confini di personaggi e situazioni uniche e indimenticabili. Di spunti di riflessione ce ne sono tanti in questo testo di poco più di cento pagine, e ogni lettore sceglierà quale privilegiare. Le cose che potrebbero accadere, se ci trovassimo nella situazione dei protagonisti, sarebbero molte e imprevedibili, ma tornare a una civiltà pre-tecnologia, anche solo di venti anni fa, oggi sarebbe davvero impossibile.
Abbiamo superato da tempo il punto di non ritorno.