Patrizia Cavalli / Nell’ingombro, una più profonda e definitiva leggerezza

Patrizia Cavalli, Con Passi Giapponesi, Einaudi, pp. 168, euro 17,50 stampa, euro 9,99 ebook.

Patrizia Cavalli è tra i più grandi poeti italiani, ed è musicista. A chi l’ha intervistata, ha risposto che per scrivere poesia occorre solo coraggio e smodata fiducia nelle parole. Che la tecnica è insita nella lingua.

Certo, la lingua delle maghe come lei. Sorniona e dissacrante, al limite dell’opera buffa, possiede la specialità di inserire musica, poesia, racconto del pensiero e del sentimento, in una delicata e scheggiante regia teatrale. Sappiamo che apprezza il teatro d’opera, nella sua ritualità fresca e assurda. Citiamo soltanto Tre risvegli (in Datura, Einaudi, 2013) atto unico in tre scene, con tanto di coro e orchestra. Ha tradotto Shakespeare, una delle sue letture ricorrenti, e ha scritto molte raccolte poetiche, pubblicate da Einaudi. Con Passi giapponesi è un libro diverso. Un giardino di sortilegi, immagini, stati d’animo, sogni e incubi, progetti, memorie. Certo, un altro libro di poesia, ma vestita diversamente.

A proposito di abiti, “Fare bagagli”, disfa la mancanza di immaginazione del viaggiatore intelligente, leggero. “Ma ora, a ripensarci, con orgoglio ribelle voglio affermare i miei diritti di viaggiatrice pesante, e non solo, ma elenco pure, ed elencando le tante ragioni di quei pesi spiegherò come nell’ingombro si nasconda una più profonda e definitiva leggerezza”.

Il primo racconto, che dà titolo al libro, non può non accostarsi, per stile di alta sartoria, alla perfezione del Gadda. La lingua tanto decorata, pomposamente ha da sgonfiare la protervia di una signora, gran pettegola. Donna sarda, con una lingua ruvida e indomabile, ha fondato un opinionismo di quartiere, “un’infezione”. “La sua attenzione, che si era messa in proprio, si avventava senza discrimine sopra ogni apparenza e, scompigliandone con furia perquisitoria le fattezze, le riportava una baraonda di immagini e notizie frantumate e per lo più inutili, persino alla sua stessa invidia, ma alle quali non poteva sottrarsi e che, standole sempre addosso, ovunque si conducesse, mai le consentivano di mescolarsi all’ampio respiro di una giornata o di concedersi alla dolcezze di una visione senza attributi.”

“Ricordi di infanzia e adolescenza”, “Scarpe da Ballo”, “La strada nuova”, sono commoventi ritratti della mamma, la zia e la nonna. Ci sono pezzi geniali come “Soldi” in cui la protagonista racconta la parabola delle multiformi gabbie della nostra mente, a proposito di soldi. Come un eterno Signor Palomar, sono messi a nudo i nostri più inconfessabili controsensi. Se la poesia, come ha detto qualcuno, è la sola scienza possibile di quanto nella vita non si dà altra scienza, “Varietà”, la parte finale del libro, offre un menu – lei si dichiara cuoca esperta – squisito e nutriente. “Non sono nata per essere ragionevole”, “A chi parlo quando parlo da sola”, “Ora per me è impossibile fare viaggi”, “Un bacetto e passa tutto” (cito l’incipit dei pezzi, che sono senza titolo) ci riportano a casa, come fa un navigato capitano di lungo corso, durante la burrasca.

Giusto il tempo di asciugarsi e rituffarsi nell’elegia.

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