Carbonio scommette per la seconda volta su Hafid Bouazza; dopo I Piedi di Abdullah ecco quindi il secondo romanzo di uno tra i maggiori scrittori della letteratura olandese di migrazione, Paravion: viaggio visionario che si aggancia ai temi della diaspora migratoria e della misoginia patriarcale per trascenderle in fiaba, mito, immagine.
Marocco. In uno sperduto villaggio della Morea, gli uomini sono saliti sui loro tappeti volanti per andare a cercare fortuna. Mandano rare lettere alle loro donne, che hanno ingravidato prima di partire. Sul francobollo c’è scritto Par avion, posta aerea.
‘Paravion’ è parafrasi dell’altrove lontano, il mondo dove si diventa ricchi. La sirena. Le donne partoriscono femmine e vanno in paese, nel giorno di mercato, per farsi leggere le lettere. Unico maschio di questo gineceo è Baba Baluk, che tintinna come i campanelli delle sue capre, spia le lezioni della scuola alla quale non è ammesso e viene iniziato all’arte dell’eros da una ragazza splendente.
Suoni e colori avvolgono il lettore in una lingua corporea. Le sensazioni tattili, visive, sonore, sono molto potenti. L’obiettivo si sposta in continuazione, senza avvisare. In una sovrapposizione ininterrotta di tempi e luoghi vediamo cosa succede a ‘Paravion’ e nel villaggio: la dissolvenza, tipico effetto cinematografico, diventa letteraria. Se ci si lascia sgomentare senza porre resistenza, si vola.
Al villaggio, le bambine senza padri crescono sfrenatamente libere e felici. Ci sono le vecchie gemelle siamesi, che conoscono le erbe e sono maghe. C’è Mamurra, donna molto amata dal marito e tenuta a margine dalla comunità. Ci sono le capre con i loro sonagli e il sole che stordisce; ci sono poi i sentimenti e le visioni di tutti, immersi in vertiginosi contrasti. Scomparsa la necessità morale di comporre i ruoli, vincono la bellezza, la lussuria della natura e della sua musica costante. I canti degli uccelli, le civette, gli alberi sono personaggi vividi non meno degli umani e dei loro affanni.
Intanto, a ‘Paravion’, i sogni sbiadiscono e le pastoie della tradizione offuscano gli sguardi: le donne lì sono troppo libere, non resta che odiarle, desiderandole. Qui i maschi non hanno potere (se vuoi comandare devi tornare a casa) e si riuniscono nella sala da tè, per non perdersi. Fino a quando non decideranno di tornare al villaggio e sposare le bambine. Ma intanto il mondo è cambiato, cambia sempre, anche se non vuoi.
Il nucleo della lingua di Bouazza (resa magistralmente da Laura Pignatti) è un infinito fluttuare, perdere peso, diventare suono, colore e sensazione del corpo. Riesce a evocare persino gli odori. In un caleidoscopio di immagini e sentimenti depurati dalla narrazione lineare, Paravion contiene le tinte furiose delle terre africane e il vapore delle tele di Georges Seurat. Impressionismo e fauve stordiscono il lettore, che invano cerca di ricordare tutti i personaggi. Sono così intensi e ben dipinti, eppure subito evaporano.
Il carrettiere che faceva lo spaventapasseri, assordato dal gracchiare del corvo, il bambino rondine Senunu, troppo delicato per toccare terra, la sala da tè Bar Zach dove si consumano bevande taroccate e si discute di televisori da comprare e portare a casa, le donne scostumate e sentimentali di ‘Paravion’.
“Ascolta!”, “Guarda!” sono incipit usati come ritornelli, come un sipario che si apre sul teatro di questa lingua così piena di grazia. Per il lettore che è salito sul tappeto volante, sarà difficile scendere, alla fine.