Un Martini Heidegger, per favore…

Laurent Binet, La settima funzione del linguaggio, tr. Anna Maria Lorusso, La nave di Teseo, 2018, pp. 454, euro 20,00 stampa, euro 9,99 ebook

La nave di Teseo non poteva non pubblicare la traduzione italiana di questo romanzo di Laurent Binet, La settima funzione del linguaggio, alla sua seconda prova letteraria (nel 2015 ha già pubblicato con Einaudi il romanzo HHhH, sull’attentato a Reinhard Heydrich a Praga nel 1942). Era una scelta obbligata perché uno dei suoi protagonisti è nientemeno che Umberto Eco, recentemente scomparso, padre nobile della casa editrice e suo sostenitore quando Elisabetta Sgarbi decise di rompere con Mondazzoli, la mostruosa concentrazione editoriale derivante dalla fusione di Rizzoli – Corriere della Sera con la Mondadori di Marina e Silvio Berlusconi.

(Ecco spiegato perché è altamente improbabile che esca in tempi brevi un Meridiano Mondadori dedicato ad Eco…)

Quando l’autore del Nome della rosa e della Struttura assente incontrava i suoi studenti – e qualche infiltrato – dopo le sette di sera, al Caffè dei Commercianti di Bologna, diceva “voi dovete imparare ad uccidere i vostri padri, me compreso: non riesco a capire come mai nessuno abbia il coraggio di contrastare e di contestare il potere che io ed altri corsari abbiamo assunto in ambito culturale ed accademico e che ormai manteniamo da molti anni”. E il romanzo di Binet ci insegna anche questo: che dobbiamo uccidere i nostri padri se vogliamo scalzarli dal loro potere, prendere il loro posto e diventare i padri di noi stessi, come nel romanzo familiare di Freud.

Effettivamente, rileggendo attentamente La settima funzione del linguaggio viene da pensare che l’avrebbe potuto scrivere Umberto Eco se avesse avuto la leggerezza e l’arguzia che ha dimostrato Binet nell’elaborazione della trama. Invece è venuto fuori Il pendolo di Foucault… troppo lungo e pesante per essere un romanzo veramente riuscito. Era necessario dunque uccidere il padre perché si arrivasse al vero romanzo sul post-strutturalismo e sulle sue aporie: di qui la scelta narrativa di Binet di trasformare la morte accidentale del critico Roland Barthes, uno dei padri più autorevoli del post-strutturalismo e della semiologia francesi – che guarda caso, aveva predicato proprio “la morte dell’autore” – in un vero e proprio assassinio, che diventa il motore di tutta la storia. E a ripensarci, Eco avrebbe sicuramente adorato leggere una storia avente come protagonista un semiologo-detective, il dottorando Simon Herzog…

Nel corso del romanzo troveremo altre morti di personaggi illustri, ad esempio il filosofo Jacques Derrida, padre della Decostruzione, accoppato durante una specie di orgia notturna nel cimitero di Ithaca, nello Stato di New York, dopo aver partecipato ad un Convegno alla Cornell University. Ovviamente si tratta di una scelta narrativa che crea un vero e proprio stato di sofferenza in tutti coloro che hanno amato Derrida alla follia sin da quando, nel 1967, pubblicò La scrittura e la differenza. Di certo l’autore avrebbe potuto caratterizzare meglio il personaggio di Derrida, che nel libro appare appena abbozzato (viene descritto semplicemente come un individuo con la testa infossata nelle spalle, le labbra sottili, i capelli argentei e il naso aquilino: una specie di Sergio Mattarella), riportando ad esempio alcune delle sue battute più celebri, come quella che faceva sempre quando si sedeva al bar a prendere l’aperitivo, ordinando un Martini Heidegger. Altrettanto scialba ci appare la caratterizzazione del critico della Yale School Paul de Man, su cui l’autore avrebbe veramente potuto fare i fuochi d’artificio: infatti, alla fine degli anni ’80 vennero fuori i suoi articoli antisemiti pubblicati in gioventù su un giornale collaborazionista belga.

Ben diversa invece la figura del filosofo del linguaggio John Searle, che spicca nel romanzo per i suoi modi bruschi, degni di un poliziotto o di uno che potrebbe comparire con “un ruolo secondario in un film di Sydney Pollack” (p. 289). Searle divenne famoso negli anni ’70 in ambito filosofico ed accademico per aver ripreso e rielaborato la teoria sugli speech acts (atti linguistici) di John Austin, teoria che, insieme alle funzioni del linguaggio di Jakobson, fornisce una solida base teorica a La settima funzione del linguaggio. Anche Searle nel romanzo muore, non posso ovviamente anticipare come e perché: comunque, chi lo ha conosciuto personalmente ricorda il suo caratteraccio, ben rappresentato nel romanzo di Binet dalla battuta feroce rivolta contro de Man: “Prendi i tuoi Derrida boys e vattene” (p.290). Si tratta di una battuta che Searle avrebbe potuto benissimo pronunciare, e forse l’ha detta davvero, come può confermare chi partecipò a un importante convegno bolognese negli anni ‘80, durante il quale il seguace di Austin argomentò che anche per litigare è necessario un linguaggio comune. Infatti alla fine del convegno Searle continuò a litigare con alcuni studenti che sostenevano le tesi di Derrida, che lo aveva fatto oggetto di un vero e proprio sfottò nel suo saggio “Limited Inc, ABC” (1980), storpiandone il nome in SARL: Société à Responsabilité Limitée .

Insomma, c’è stato un momento magico, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, in cui Parigi e Bologna sembravano essere diventati i fari assoluti della cultura, universitaria e non. A Bologna, in particolare, passata l’ondata rivoluzionaria del ’77, sconfitta militarmente dai carri armati di Kossiga, permanevano tutti quegli spunti culturali e creativi del Movimento che ne facevano un punto di riferimento per tutti i giovani di sinistra di quella generazione. All’improvviso a Bologna si diffusero a macchia d’olio la linguistica di Ferdinand de Saussure e di Roman Jakobson, lo strutturalismo e la semiotica di Roland Barthes, Gérard Genette e A. J. Greimas, che pure erano già penetrati negli ambienti culturali italiani fin dalla metà degli anni ’70, e a partire da quel momento il contagio si diffuse in tutto il corpo accademico e in gran parte della popolazione studentesca, in tutti i dipartimenti e le facoltà.

In realtà l’influsso post-strutturalista vero e proprio non veniva tanto dalla Francia, ma di riflesso dai dipartimenti di letteratura, di critica letteraria e di scienze umane delle università americane, in particolare Yale e Cornell, che utilizzarono la cosiddetta “svolta linguistica” (linguistic turn) come l’occasione per arricchire e rivitalizzare il loro campo di studi liberandosi dai ceppi del Formalismo e del New Criticism, ma anche come occasione per prendere il potere e guadagnare nuove cattedre all’interno del sistema dell’accademia americana. In un attimo Foucault, Derrida, Deleuze ed altri divennero delle superstar nelle università americane, soprattutto nelle facoltà di scienze umane, nei dipartimenti di letteratura, di critica letteraria e di critical theory, mentre i Dipartimenti di Filosofia americani rimanevano ancora saldamente ancorati alla tradizione della filosofia analitica.

A Bologna alcuni professori del dipartimento di lingue, soprattutto di inglese, cominciarono a riportare dai loro viaggi in America i testi che si occupavano della cosiddetta French theory, che in poco tempo venivano fotocopiati e diffusi tra i discepoli. Il contagio divenne una vera e propria pandemia: gli innamorati a Bologna leggevano i Frammenti di un discorso amoroso di Barthes, e ti potevi intrattenere tutta la sera con la traduttrice italiana di Jonathan Culler parlandole de Il piacere del testo, spiegando quanto questo piacere fosse perverso. Questo è un altro degli aspetti che Laurent Binet ha saputo cogliere: il rapporto tra storia della critica e sessualità, tra sessualità, critica e teoria letteraria, già messa in evidenza da John Fowles nel suo romanzo Mantissa (1982), e resa esplicita ne La storia della sessualità (1976-84) di Foucault, cioè la discussione di alcune astruse teorie letterarie, meta-letterarie o epistemologiche, che eccita gli animi e trasforma i propri discepoli in macchine desideranti. Da questo punto di vista, la scena di sesso che si svolge nel romanzo all’interno del Teatro Anatomico dell’Archiginnasio, descritta con la terminologia delle macchine desideranti di Deleuze e Guattari, rappresenta la realizzazione delle fantasie erotiche di chiunque all’epoca fosse uno studente di lettere e filosofia, di medicina e non solo. Anche la scena di sesso notturna nella Biblioteca della Cornell University, che ha come protagonista una giovane donna mora con i capelli a caschetto stile principessa cartaginese (Cordelia Redgrave, alias Camille Paglia), un uomo-toro e una fotocopiatrice (che rappresenta l’infinita iterabilità della scrittura analizzata da Derrida), ripropone questo torbido connubio tra biblioteche e sessualità, tra French theory e sesso sfrenato…

Alfiere di questa nuova moda neo-linguistica, post-strutturalista e semiotica a Bologna era naturalmente Umberto Eco, o semplicemente Umberto, come tutti familiarmente lo chiamavano, che potevi incontrare tranquillamente all’Osteria del Sole o al Bar Droghe (di cui Binet riporta, sbagliando, il nome attuale, cioè Antica Drogheria Calzolari), a due passi da Piazza Verdi, a discutere amabilmente davanti a un buon bicchiere di vino. Eco era all’epoca universalmente stimato e apprezzato come l’autore di testi fondamentali che tutti gli studenti bolognesi, a qualsiasi Facoltà appartenessero, si sentivano in dovere di leggere, a partire da L’Opera aperta (1962) e Apocalittici e integrati (1964), passando per Lector in fabula (1979, un libro da cui Binet ha attinto a piene mani, soprattutto il concetto che esiste un limite all’interpretazione, che non si può far dire ad un testo ciò che si vuole) fino a Il nome della rosa (1980).

(Qualcuno più masochista degli altri ha continuato a leggere tutto ciò che usciva di Eco anche negli anni successivi; i più eroici hanno perfino letto Baudolino…ma molti si sono fermati a La Misteriosa Fiamma della Regina Loana.)

Laurent Binet ha voluto dunque raccontare questo momento magico della “svolta linguistica”, ambientando il suo romanzo tra Parigi, Bologna, Ithaca, Venezia e Napoli. Al centro di questi anni si colloca, purtroppo, anche la spaventosa bomba alla stazione di Bologna (2 Agosto 1980), che alcuni dei protagonisti evitano per un soffio, ma che non riuscì a distruggere quelli che erano i fermenti culturali di una Bologna che, anche dopo il terribile boato, seppe risorgere dalle sue macerie e ricostruire la sua identità culturale come prima e meglio di prima. Binet immagina che i protagonisti del romanzo si intrattengano con Eco alla stazione di Bologna fino a pochi minuti prima dell’esplosione, soffermandosi su alcuni dei presunti sospetti, compreso il sud-tirolese con il vestito tradizionale degli Schutzen, che – secondo una ipotesi investigativa – sarebbe stato Giusva Fioravanti.

Il romanzo prende dunque le mosse dalla strana morte di Roland Barthes, il 25 Febbraio 1980, investito da un furgone di lavanderia dopo aver partecipato ad un pranzo con François Mitterand. Barthes era, al momento della sua morte, il principale esponente del post-strutturalismo francese, oggetto di un vero e proprio culto tra gli studenti francesi e bolognesi di quegli anni (e non solo loro…), e dalla sua morte si dipana un complesso intrigo internazionale che ruota intorno a uno misterioso testo (è evidente il rimando alla Lettera rubata di Edgar Allan Poe), un testo fondamentale per ottenere potere e dominare le masse con la capacità di persuasione, la settima funzione del linguaggio, la funzione performativa, soltanto accennata da Roman Jakobson nei suoi Saggi di Linguistica Generale (1966), che diventa invece l’oggetto della quest che coinvolge gli investigatori protagonisti.

Infatti, dopo la morte di Barthes, il poliziotto Jacques Bayard, omofobo e anticomunista, comincia ad indagare, e siccome non conosce l’ambiente accademico entro il quale il delitto è presumibilmente maturato, si rivolge ad un giovane dottorando di semiotica di Vincennes, Simon Herzog (le iniziali S. H. rimandano ovviamente a Sherlock Holmes). Questa trama internazionale vedrà coinvolta una misteriosa società segreta, il Logos Club (probabilmente ispirato all’Aldus Club fondato da Eco), organizzatrice di strane sfide di retorica che si concludono con l’amputazione del dito dello sconfitto (di qui la copertina del libro, un’accetta su uno sfondo giallo), e tutti i più grossi nomi dell’intellighenzia francese: Michel Foucault, Jacques Lacan, Jacques Derrida, Gilles Deleuze, Félix Guattari, Louis Althusser, Bernard Henry-Levi, Julia Kristeva e suo marito Philippe Sollers, che alla fine di una disputa retorica del Logos Club a Venezia verrà addirittura castrato. (Pare che il vero Sollers non l’abbia presa molto bene…)

A questa schiera di vere e proprie vedettes della cultura francese, Binet aggiunge il “bolognese” Umberto Eco, che negli anni ’80 era l’unico studioso italiano che fosse veramente apprezzato e rispettato a livello internazionale, invitato da tutte le più prestigiose università e a tutti i convegni più prestigiosi. La settima funzione del linguaggio è dunque la storia di un grande momento storico in cui tutti quanti ci siamo fatti prendere, al di là e al di qua dell’Atlantico, dall’ebbrezza della linguistica, dello strutturalismo, della decostruzione e del post-strutturalismo. Va dato atto a Binet di aver saputo ricreare questo clima straordinario in cui tutto sembrava possibile, in cui addirittura si pensava di poter contribuire all’emancipazione della classi subalterne, delle donne o degli omosessuali tramite la decostruzione del linguaggio e quindi lo smascheramento dell’ideologia del Potere.

Questo sogno in parte finì quando qualche anno dopo venne Harold Bloom a Bologna, a spiegarci che interpretare Shakespeare o Milton con le categorie strutturaliste di Greimas o Genette era una vera e propria eresia, che non era mai esistita e non poteva esistere quella mostruosità che Bloom chiamava, con una smorfia di disgusto, French Shakespeare. Poi arrivò Geoffrey Hartman e, con una sola battuta, “There was life before Derrida”, ci fece capire che non bastava leggere le opere di Derrida, ma bisognava tornare a studiare Lukacs, Bachtin e Walter Benjamin. Allora nacque una nuova moda: quella dell’interpretazione critica gnostico-cabalistica dei rapporti revisionistici esposta ne L’angoscia dell’influenza (1983) di Bloom, oppure il ritorno alla tradizione della critica dell’ideologia e della Kulturkritik proposto da Hartman. Ma questa, come capirete, è un’altra storia.

Alcune considerazioni (derridianamente) a margine:

1) Nonostante sia piuttosto corposo, questo romanzo si legge in un attimo, e la sua trama riesce a mantenere il lettore incatenato fino all’ultimo al desiderio di scoprire come va a finire. Dobbiamo però sottolineare che alla fine del romanzo si diventa insofferenti quando Binet, nel suo sforzo di collegare tutti i fatti storici più importanti del biennio 1980-81, fa sì che il suo personaggio Simon Herzog rimanga addirittura coinvolto a Napoli nel sequestro Cirillo da parte delle Brigate Rosse. Non c’era già abbastanza carne al fuoco? In questo caso, francamente, l’autore ha esagerato.

2) Purtroppo dobbiamo segnalare alcuni refusi che a volte guastano la magia della storia con le loro incongruenze. La citazione da Killing an Arab dei Cure è sbagliata, recita “Staring at the see” invece di “Staring at the sea”. Sembrano delle stupidaggini, ma sono errori che rompono l’incantesimo e ti fanno ripiombare nella realtà nuda e cruda dopo averti elevato nelle più alte sfere della speculazione teorica. Così come è imperdonabile che a un certo punto della trama Philippe Sollers diventi Philippe Sellers, scatenando tutta una serie di associazioni con Il dottor Stranamore e La pantera rosa. Non parliamo poi dei tennisti, come ad esempio Vitas Gerulaitis, che diventa Vitas Gerulatis. (Ben diverso il discorso per quei momenti in cui l’autore distrugge volontariamente la “willing suspension of disbelief “ (Coleridge) del lettore con i suoi commenti e con le sue intromissioni, tipiche di una meta-romanzo.)

Ed ecco alcuni errori che si sarebbero potuti correggere con un editing più attento:

  1. 129 “il documento per cui hanno sono già state uccise quattro persone…”
  2. 209 “l’uomo con i guanti non vuole fare come di prima e va a pisciare fuori.”
  3. 212 “Pratagoras magnus” invece di “Protagoras magnus”
  4. 276 “Ammettiamo che la settima funzione del linguaggio si proprio questa funzione performativa.”
  5. 336 “…l’uomo dal collo taurino, che si è ha scopato Cordelia sulla fotocopiatrice…..”
  6. 352 “chiesa dei Gesuati”

3) Numerose le frasi celebri contenute nel romanzo, di cui non si capisce – in ossequio alla programmatica confusione tra fiction e realtà – se siano mai state effettivamente pronunciate dai personaggi reali, o se sono invenzioni dell’autore. La maggior parte di queste frasi sono attribuite a François Mitterand, di cui era ben nota l’arguzia, quindi potrebbe averle pronunciate veramente. Si tratta di frasi fulminanti per la loro intelligenza, che rimarranno certamente impresse nella mente del lettore di La settima funzione del linguaggio :

“…governare consiste nel non essere responsabili di niente!” (attribuita a Mitterand, anche se suona vagamente andreottiana, p. 188)

“Il difficile però nella vita, nella sua, nella vostra, nella mia, in ogni vita che si vuole ambiziosa, arriva quando si vede una scritta sul muro che ci dice che stiamo iniziando ad imitare noi stessi.” (attribuita a Mitterand, p. 191)

“Ogni decodifica è una nuova codifica” (attribuita a Morris Zapp, personaggio letterario inventato dallo scrittore David Lodge che, come è noto, si ispirò al critico letterario Stanley Fish, p. 298)

“Decostruire un discorso consiste nel mostrare come questo mina la filosofia cui aspira.” (attribuita a Jonathan Culler, probabilmente vera, p. 306)

“Il vero potere è il linguaggio” (attribuita a Mitterand, p. 184)

“Limitando proprio quel che autorizza, trasgredendo il codice o la legge che costituisce, l’iterabilità inscrive, in modo irriducibile, l’alterazione della ripetizione.” (attribuita a Derrida, probabilmente vera, p. 323)

“Non sono mai stata capace di vivere delle storie d’amore, ho vissuto solo romanzi” (attribuita a Cordelia Redgrave, alias Camille Paglia, p. 327)

“….l’interpretazione non può mai giungere a compimento perché non c’è niente da interpretare e perché, in fondo, tutto è già interpretazione!” (attribuita a Guattari, p. 332)

“Sollers ha già pagato un prezzo molto alto per la sua ambizione sfrenata, non crede? L’ho incontrato diverse volte, lo sapeva? Un uomo affascinante. Ha l’insolenza tipica del cortigiano.” (attribuita a Jack Lang, p. 427)

“Simon [Herzog] si chiede se nella vita reale la sinistra può davvero essere al potere.” (Dati i risultati delle ultime elezioni, questa battuta suona alquanto attuale, p. 431)

“…se Dio esiste, al massimo è un pessimo scrittore che non merita il rispetto e nemmeno l’obbedienza.” (Simon Herzog, p. 451)

4) Semplicemente sublimi sono alcuni dei titoli degli interventi al Convegno Shift into Overdrive in the Linguistic Turn, che Binet immagina tenutosi alla Cornell University nel 1980 e organizzato da Jonathan Culler (effettivamente insegnava a Cornell). In questo caso Binet probabilmente si è ispirato al celebre Convegno sul “Linguistic Turn” organizzato da Steven Kaplan e Dominick LaCapra alla Cornell University nell’aprile del 1980. Ne citiamo soltanto alcuni tra i più belli:

Noam Chomsky, “Grammatica degenerativa”

Jacques Derrida, “A Sec Solo” (Notare il gioco di parole: à sec in francese significa “a corto di idee”…)

Luce Irigaray “Fallogocentrismo e metafisica della sostanza”

Jean-François Lyotard, “PoMo in bocca: la parola postmoderna” (PoMo è l’abbbreviazione francese e americana di “postmodernismo”).

Richard Rorty “Wittgenstein Vs. Heidegger: Scontro di continenti?” (Rorty ha effettivamente scritto un saggio su Wittgenstein ed Heidegger, ma con un titolo diverso.)

5) Soltanto negli ultimi mesi si è venuto a sapere che Julia Kristeva, la linguista e psicoanalista di origine bulgara che ha avuto un ruolo importantissimo nello sviluppo della semiotica, della psicanalisi lacaniana e del post-strutturalismo francese, moglie di Philippe Sollers e insignita di vari riconoscimenti da parte di varie istituzioni francesi e internazionali, ha collaborato effettivamente con i servizi segreti bulgari. Si sapeva già che il padre della Kristeva aveva lavorato per i servizi bulgari, ma adesso una commissione statale bulgara ha stabilito che anche la figlia Julia era coinvolta fin dal 1971 nelle black ops dei servizi di quel paese. E infatti nel romanzo la Kristeva ha a che fare con quel complesso intrigo internazionale imperniato sulla settima funzione del linguaggio, cui sono interessati anche i servizi segreti bulgari e sovietici. Binet ha ripreso questa diceria che circolava da tempo sulla Kristeva – poi rivelatasi vera – ipotizzando che la psicanalista bulgara fosse implicata nella spasmodica ricerca della funzione performativa. La realtà supera la finzione?