Winfried Georg Sebald, originario della Baviera, migrò definitivamente in Inghilterra nel 1970, dove per molti anni insegnò letteratura tedesca all’università; bibliofilo, traduttore, poeta, appassionato di architettura e di fotografia, Sebald tra le pagine di Austerlitz dà vita a un personaggio che gli somiglia: il professor Jacques Austerlitz è un docente universitario di storia dell’architettura, un uomo riservato, in eterno pellegrinaggio interiore, la cui sterminata cultura si stempera in un’indole profondamente malinconica.
Il narratore incontra per la prima volta Jacques alla Salle des pas perdus, nella stazione di Anversa, nel 1967; a questo casuale incontro ne seguiranno altri, diluiti nel corso di circa trent’anni, alcuni molto distanziati tra loro, in ognuno dei quali l’enigmatico professore senza alcun preambolo prende a confidarsi con lui, in un modo pacato, evanescente, minuzioso ai limiti della pedanteria.
Austerlitz è evidentemente una persona molto erudita, ma in qualche modo disagiata, raccolta nei suoi pensieri, con poche relazioni umane; è spesso intento a scattare fotografie o a osservare le strutture architettoniche che lo circondano, con fare assorto; è anche un grande camminatore e viaggiatore, sempre con lo zaino in spalla, come il filosofo Wittgenstein, cui è accomunato secondo il narratore da una certa affinità: “se guardo Austerlitz, è come se vedessi in lui l’infelice filosofo, imprigionato nella chiarezza delle sue riflessioni logiche e nel disordine dei suoi sentimenti”.
Austerlitz è un solitario, d’animo ascetico, una grande fonte di conoscenze di ogni genere, ma è anche un uomo smarrito, che non sa nulla della sua infanzia, delle sue origini, della sua famiglia biologica.
Durante queste conversazioni casuali, non programmate, ma incredibilmente confidenziali, i ricordi di Austerlitz affiorano in modo disordinato, senza un filo logico o temporale ben chiaro, ma vanno ad arricchirsi via via di infiniti particolari, all’apparenza insignificanti o secondari, fino a rievocare scenari lontani, sopiti fino ad allora nelle profondità della coscienza; scenari che, trovato l’interlocutore eletto, l’ascoltatore prescelto, prendono forma con una precisione geometrica.
I primi ricordi risalgono all’infanzia trascorsa a Bala, una cittadina di provincia del Galles, presso i genitori affidatari: il predicatore calvinista Elias e sua moglie Gwendolyn. Jacques andando a ritroso nel tempo, guidato dal bagliore intermittente dei ricordi, si rende conto di come alcune immagini già allora, da bambino, gli apparissero inspiegabili, dolorose, lasciate sospese e senza risposta; di come assumessero i contorni deformati del senso di colpa, della remissività passiva, dell’illogico come unica possibilità, come spesso accade nei labirinti interiori dell’infanzia: “nel mio angusto giaciglio in casa del predicatore, sono rimasto a lungo insonne nel tentativo di raffigurarmi i volti di coloro che avevo abbandonato, così temevo, per colpa mia; ma solo quando la stanchezza mi paralizzava e le palpebre si abbassavano nell’oscurità vedevo, per un brevissimo istante, la mamma curvarsi su di me o il papà sorridente nell’atto di mettersi il cappello”.
Jacques Austerlitz racconta di aver pensato per anni di chiamarsi Dafydd Elias; ha saputo del suo vero nome solo ai tempi del college, quando il direttore Penrith-Smith una mattina lo ha mandato a chiamare, spiegandogli che da quel momento in poi sui documenti d’esame sarebbe stato bene firmare con il nome Jacques Austerlitz perché, così disse, “It appears that this is your real name”.
A partire da quell’istante – così Austerlitz racconta al narratore – egli ricostruirà il suo passato di bambino ebreo, figlio di una cantante lirica e di un membro del Partito socialdemocratico cecoslovacco, fuggito da Praga alla vigilia dell’ingresso in città delle truppe naziste, messo in salvo appena in tempo su uno dei convogli del kindertransport, mentre il vero padre – così poi verrà a sapere – cercava rifugio a Parigi, scomparendo per sempre, e la madre, arrestata e deportata, andava incontro alla morte nel lager di Terežin.
I ricordi appaiono dapprima vaghi, come reminiscenze di immagini, associazioni di colori e ambienti, suoni e situazioni, ma poi si addensano, prendono corpo, ricollegandosi tra loro come una struttura sempre più articolata e logica, particolareggiata, da cui Austerlitz si lascia attraversare. Ma la sensazione è che Jacques, quanto più si abbandona al passato, tanto più si vada sottraendo alla realtà concreta che lo circonda, arrivando a essere sempre più un uomo isolato, mesto, chiuso in sé.
Per lungo tempo – racconta – ha preso appunti, raccolto materiale, progettato una grande opera; ma ora si trova in continua dialettica tra il desiderio di realizzarla e l’impossibilità di venire a capo dell’idea che ne ha, che ne aveva, perché troppo vasta e multiforme.
“Perché mai avesse scelto un campo di indagine così vasto, disse Austerlitz, questo non lo sapeva nemmeno lui. […] ancor oggi continuava a seguire un impulso, a lui stesso non perfettamente chiaro, e in qualche modo connesso al fascino emanato dall’idea di una struttura reticolare”.
Jacques è un uomo assediato, ormai, dai frammenti della propria memoria, dai propri pensieri; percorre di notte interi quartieri, spesso si mette in viaggio, nel ventre di un’Europa ancora ferita dai lutti e dalle deportazioni, dall’orrore del fanatismo e della guerra; visita a ritroso i luoghi della sua infanzia, di cui nulla ricorda, neppure il linguaggio. Ma si accorgerà con sgomento – ritrovando Vera, amica della madre e sua bambinaia – che nulla è cancellato, ma soltanto accantonato in un recesso della coscienza, che accoglie tutto ciò che la sua mente ha catalogato come pericoloso, come potenziale rievocazione del trauma subito.
Austerlitz percorre molte tappe, cerca le tracce dei propri genitori; scatta centinaia d’istantanee a edifici, stazioni, caserme; durante i colloqui col narratore si lascia andare a riflessioni interminabili, meticolose, esamina i risvolti esistenziali dell’architettura, o si perde in digressioni filosofiche, o riguarda mille volte vecchie fotografie in bianco e nero, che conserva come preziosi frammenti di esistenza delle persone travolte dal destino, o dalla Storia. Il rapporto che Jacques ha con le persone scomparse è profondo, sensitivo, sognante, e questo fa del suo mondo interiore una soglia, una riva, animata di sguardi e sospiri, avvolta nella nebbia soffusa del ricordo e della memoria.
“A quest’idea che mi ero fatto dell’esistenza subacquea della popolazione di Llanwddyn aveva in parte contribuito anche l’album mostratomi da Elias […] che conteneva parecchie vedute del suo paese natale inabissato tra i flutti. […] io continuavo a guardare e a riguardare le poche fotografie […], finché le persone che da quelle mi fissavano: il fabbro con il grembiule di cuoio, il maestro di posta già padre di Elias, il pastore che camminava per la strada del villaggio con le pecore, e soprattutto la bambina seduta su una seggiola in giardino con il cagnetto in grembo, mi divennero così familiari come se avessi vissuto con loro sul fondo del lago. Di notte, prima di addormentarmi nella mia stanza gelida, avevo spesso la sensazione di essermi inabissato anch’io nell’acqua scura, di dover tenere gli occhi spalancati […], per riuscire a cogliere in alto sopra di me un debole chiarore e l’immagine riflessa, franta dalle onde, della torre di pietra…”.
A queste atmosfere svagate e sognanti fanno da contrappunto minuziose osservazioni tecniche, tratte dai campi più svariati: l’analisi geometrica di fortezze militari, l’enumerazione di ritrovamenti archeologici o antropologici, la dettagliata enumerazione di varianti naturalistiche ed etologiche, come accade per le tignole: “Alcuni [esemplari] portavano colletti e mantelli come distinti signori […] in procinto di recarsi all’opera; altre farfalle erano semplicemente policrome, ma, appena muovevano le ali, esibivano un fantastico rovescio e si vedevano linee oblique e sinuose, ombreggiature, macchie falcate e zone più chiare, fasce a dentelli, frange, chiazze, nervature a colori che mai nessuno si sarebbe immaginato: verde muschio con tracce bluastre, fulvo e giallo zafferano, color argilla e bianco raso, e uno scintillio metallico come di ottone in polvere oppure d’oro”.
Queste digressioni sono le uniche occasioni in cui Jacques disvela al suo ascoltatore qualcosa della propria interiorità.
“Ma ciò che in particolare non ho mai dimenticato è quanto mi raccontò allora Alfonso sulla vita e la morte delle tignole, nei confronti delle quali io nutro ancor oggi il massimo rispetto fra tutte le creature. Nei mesi più caldi non è raro che uno o l’altro di questi insetti notturni si smarrisca e mi capiti in casa per sbaglio, provenendo dal giardinetto sul retro. Se l’indomani mi alzo di buon’ora, li vedo posati, immobili, in un qualche punto della parete. Sanno, credo, disse Austerlitz, di essersi smarriti perché, se non vengono fatti di nuovo uscire usando tutta la delicatezza possibile, rimangono lì fermi finché non esalano l’ultimo respiro, anzi, con i minuscoli artigli irrigiditi nello spasmo dell’agonia, restano aggrappati al luogo della loro sventura oltre la fine della vita, sino a quando un soffio di vento non li stacca e li disperde in un angolo polveroso. Talvolta, alla vista di una tignola morta così nel mio appartamento, mi domando che genere di angoscia e dolore esse provino quando capiscono di essersi smarrite. Come lui aveva appreso da Alphonso, disse Austerlitz, non c’è in fondo alcun motivo per negare una psiche alle creature più umili”.
Austerlitz porta un peso, che è quello di sentire l’anima dei luoghi; le voci, le sagome umane che ritornano; le stazioni, il partire, la lontananza, il non ritorno; il richiamo del passato, della storia intesa non come celebrazione dei grandi avvenimenti, ma come parcellare percorso di ogni individuo, specialmente di coloro che dalla sorte collettiva sono stati oppressi, o investiti e spazzati via: “Non di rado nelle stazioni parigine, che ai suoi occhi – come lui disse – erano luoghi in pari tempo di felicità e di infelicità, gli capitò di incorrere nelle più pericolose correnti del sentimento, a lui stesso affatto incomprensibili”.
E ancora: “cominciai allora […] a vedere, attraverso una sorta di fumo che avanzava o di velame, forme e colori dotati di una corporeità per così dire ridotta, immagini da un mondo impallidito […] In quell’eterna penombra, percorsa da un groviglio di voci soffocate, da un leggero strascicare e scalpicciar di piedi, l’infinità di gente, appena scesa dai treni o in procinto di salirvi, si muoveva in fiumane che si incontravano e si separavano […] mi fermavo lì, per almeno un’ora o due, seduto su una panca con i barboni o con gli altri viaggiatori […] e intanto sentivo in me qualcosa che continuava a tirare, una specie di male al cuore che – cominciavo ad averne il sospetto – era causato dal risucchio del tempo trascorso”.
Austerlitz è dipinto come un personaggio pervaso da una sensibilità fuori dal comune; per questo – così sembra volerci far intendere Sebald – in un primo momento la sua mente si è autoprotetta in modo inconsapevole, blindando i ricordi in una camera stagna: “Nessuno può spiegare esattamente che cosa succede in noi quando si spalanca la porta dietro cui si sono celati i terrori dell’infanzia”.
All’affiorare delle prime reminiscenze fa seguito un senso di sgomento, come quando ci si affaccia su un precipizio inaspettato.
“Non vidi soltanto il pastore e sua moglie, disse Austerlitz, vidi anche il bambino che erano venuti a prendere. Sedeva in disparte, tutto solo su una panchina. Le gambe, nei loro calzettoni bianchi, erano sospese a mezz’aria e, non fosse stato per lo zainetto che teneva abbracciato in grembo, credo non lo avrei mai riconosciuto, disse Austerlitz. Così invece, grazie allo zainetto, lo riconobbi e, per quanto a ritroso potessi andare con il pensiero, per la prima volta mi ricordai di me stesso comprendendo che proprio lì, in quella sala d’aspetto, ero giunto in Inghilterra oltre mezzo secolo addietro”.
Ma i ricordi, tramite un percorso evocativo dapprima involontario, poi doloroso e devoto, non possono che riemergere, organizzandosi in un intreccio sempre più vasto, sempre più nitido.
L’apparente incapacità di Austerlitz nei rapporti umani, la sua completa mancanza di pragmatismo, di calcolo e programmaticità sono certo sintomo di una scarsa vocazione per il reale e il concreto, ma anche del suo essere di più ed essere altrove, dello scambio continuo con un universo sottile, della sua pervasiva unità con il nascosto e l’impercettibile.
“Quando mi ritrovai di nuovo fuori sulla piazza deserta, sentii con inequivocabile certezza che quelle persone non erano state condotte via, ma vivevano ancora, stipate nelle case, nei sotterranei e nei solai, salivano e scendevano senza posa le scale, guardavano fuori dalle finestre, si muovevano in gran numero per le strade e per i vicoli e, in silenziosa adunata, occupavano addirittura l’intero spazio tra cielo e terra che una pioggia sottile tratteggiava di grigio”.
A queste realtà spirituali, a queste presenze corali e litaniche, l’ingresso è continuo, spesso non voluto.
“Era nei momenti di particolare debolezza, quando credevo di non farcela più ad andare avanti, che venivo colto da queste allucinazioni. A volte mi pareva che tutt’attorno il rimbombo della città scemasse, che sul manto stradale il traffico scorresse senza rumore o che qualcuno mi avesse tirato per la manica”.
E diventa, a volte, sofferta partecipazione, specialmente all’atto di visitare luoghi sinistri, campi di prigionia, celle, ospedali psichiatrici, istituti di pena, ambienti dove c’è stato isolamento, e umano dolore: “sovente mi sono chiesto se il dolore e le sofferenze lì accumulatisi nei secoli siano davvero passati o se ancor oggi non ci accada di attraversarli nei nostri giri per gli atri e sulle scale, come credo di avvertire da una corrente gelida che mi lambisce la fronte”.
Austerlitz è un architetto anomalo, che non ama le strutture, ha repulsione per le rigidità, le catalogazioni, per il positivismo celebrativo, per il magnifico e il colossale; ha, per così dire, un atteggiamento mentale liquido, in cui tutto può essere percezione, presenza, comprensione, senza categorie, senza divisori. A tal proposito è emblematico il concetto mortifero del tempo: “notammo entrambi quanto interminabilmente lungo fosse il trascorrere di un minuto e come ci sembrasse ogni volta orribile, benché ce lo aspettassimo, l’avanzare di quella lancetta, simile alla lama del boia, quando separava dal futuro il successivo sessantesimo di ora lasciandosi dietro un tremolio talmente minaccioso che quasi il cuore smetteva di battere”.
Il tempo è una sovrastruttura della percezione, che – nel suo proteggerci dalla compresenza di ogni istante, di per sé insostenibile – diviene comunque limite, separazione e lontananza.
“Un orologio mi è sempre sembrato qualcosa di ridicolo, qualcosa di mendace per antonomasia, forse perché, per un impulso interiore a me stesso incomprensibile, mi sono sempre ribellato al potere del tempo escludendomi dai cosiddetti eventi temporali, nella speranza […] che il tempo non passasse, non fosse passato, che mi si permettesse di risalirne in fretta il corso alle sue spalle, che là tutto fosse come prima o, per meglio dire, che tutti i punti temporali potessero essere simultaneamente gli uni accanto agli altri, cioè che nulla di quanto racconta la storia sia vero, che quanto è avvenuto non sia ancora avvenuto, ma stia proprio accadendo nell’istante in cui noi ci pensiamo, il che naturalmente dischiude peraltro la desolante prospettiva di una miseria imperitura e di una sofferenza senza fine”.
L’avversione per le strutture architettoniche monumentali, espressione di artificiosa, pretesa supremazia umana sulla complessità del creato, sul corso degli eventi, sull’eterno caotico naturale fluire, è manifestata chiaramente: la tendenza della specie a perseguire il grandioso è quasi commiserata: “ma forse sono proprio i nostri progetti più ambiziosi a tradire maggiormente il grado della nostra insicurezza”.
Perché l’uomo costruisce strutture immani in cui poi si ritrova inefficace, sperduto e infelice, come accade per l’Archivio di Stato di Praga, descritto come un luogo caotico e soffocante, o il Palazzo di Giustizia di Bruxelles; o per la Nuova Biblioteca Nazionale di Parigi, divenuta tentacolare per l’ingenua presunzione di catalogare tutto lo scibile, ed estesasi fino ad assumere contorni mostruosi, ad andamento rizomatico, a emblema di una realtà smisurata e sfuggente, dove ogni elemento è il nodo di una rete di collegamenti virtualmente infinita.
Così sono destinate a fallire le fortificazioni, che vorrebbero anticipare ogni offensiva, o gli istinti maniacali di catalogare gli esseri umani, spintasi fino agli orrori nazisti.
Austerlitz ama il minuto, il singolo, ciò che è a misura della sua interiorità: “la capanna, l’eremo, le quattro mura del guardiano delle chiuse, la specola di un belvedere, la casetta dei bambini in giardino”, perché invece l’uomo, di fronte alle proprie costruzioni colossali, viene colto da una “meraviglia [che] è una forma preliminare di terrore, perché naturalmente qualcosa ci dice che gli edifici sovradimensionati gettano già in anticipo l’ombra della loro distruzione e, sin dall’inizio, sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine”.
Allo stesso modo Austerlitz costruisce sul singolo la propria metafisica della storia, che non è la voce unica e baritonale che ci viene spesso restituita dai manuali, dai documentari, ma il respiro corale di tante anime, che portano una vicenda personale, un proprio vissuto interiore.
In questo le fotografie, che Sebald inserisce senza alcun commento o didascalia nel corpo del testo, hanno un significato particolare.
Numerosi teorici – come Eduardo Cadava, Ulrich Baer, Marianne Hirsch per esempio – hanno messo in rilievo il rapporto tra fotografia e trauma, lutto, memoria. Freud in una sua opera (n.d.r. L’uomo Mosè e la religione monoteistica) spiegando il fenomeno psichico della latenza – per cui un fatto, accaduto nell’infanzia, può essere apparentemente dimenticato, per poi riemergere a distanza di tempo – evoca l’evento fotografico come metafora: accade la stessa cosa tra l’attimo in cui la luce impressiona la pellicola e quello in cui l’immagine, nelle dovute condizioni, emerge, appare e si definisce.
Le fotografie che Sebald inserisce probabilmente hanno questa funzione: elaborare il trauma, celebrare il lutto, elevare la storia (e parcellizzarla) a memoria collettiva. Le immagini fanno da controcanto al testo, alle storie dei singoli che l’autore vuole riportare, elaborando la propria privata forma di ontologia storica.
Alle fotografie propriamente personali Sebald ne aggiunge altre di apparente carattere pubblico, che però sono evidenti ecfrasi, a rinforzo della narrazione del vissuto di ogni individuo che ne ha partecipato: strutture architettoniche, monumenti, planimetrie, vedute naturalistiche, queste ultime spesso nebbiose, meste; molte immagini che riportano le desolazioni di Terezín, il paese fantasma accanto al dismesso campo di prigionia, ancora abitato ma spettrale, coi suoi gli intonaci franati, le porte sbarrate, le finestre cieche, il sinistro bazar sempre chiuso e spento, pieno di ninnoli leziosi e grotteschi.
“lo scrigno con le conchiglie, l’organetto in miniatura, i fermacarte sferici, nelle cui bocce di vetro galleggiavano favolosi fiori subacquei, il modellino di una nave […] i bottoni di corno di cervo, l’enorme copricapo degli ufficiali russi e la relativa uniforme olivastra con le spalline dorate […] Altrettanto fuori dal tempo, come quell’attimo salvifico, sospeso nell’eternità e che continua ad aver luogo qui e ora, erano tutti i ninnoli, gli attrezzi e i souvenir arenatisi nel bazar di Terezín, i quali, per una serie di coincidenze imperscrutabili, erano sopravvissuti ai loro antichi proprietari e scampati al processo di distruzione, sicché ora in mezzo a essi io riuscivo a cogliere solo indistintamente e con fatica la mia ombra”.
Austerlitz è un tesoro prezioso, multiforme, che fa della propria complessità un grande pregio; tra i profondi messaggi che riesce a trasmettere, è presente anche una riflessione accorata sui rischi connessi alla programmaticità della ragione, agli orrori cui può portare quando essa è idolatrata, esercitata all’eccesso; il grandioso progetto nazista che aveva eletto la deportazione e lo sterminio come mezzi logici e necessari per stabilire un nuovo ordine, un preteso cammino a ritroso rispetto all’apparente entropia dell’evoluzione umana, era una continua coercizione a concetti deviati di disciplina e pulizia, che si tradusse in baracche sovraffollate, gelide, mancanza di cibo, famiglie smembrate, sofferenze indicibili che ancora oggi leggiamo negli occhi dei deportati, anche bambini, quando vediamo le fotografie nei documentari, nei libri o nei musei. Così accade spesso, all’uomo che vive della propria infallibilità, di creare incubi per sé stesso e per i suoi simili: “e rammento ancora distintamente come Austerlitz […] mi raccontasse per oltre due ore che nel corso del XIX secolo la visione di una città operaia ideale, sorta nella mente di alcuni imprenditori filantropi, si era trasformata di colpo nella prassi di accasermare la gente, e d’altronde – così ricordo, aveva detto Austerlitz – i nostri migliori progetti si ribaltano sempre nel loro esatto contrario al momento della realizzazione”.
Austerlitz è un libro per certi versi sofisticato, impegnativo, profondamente letterario, ma anche intensamente umano, intimo, che riesce a raccontare la tragedia dell’olocausto con una levità lirica e vibrante, difficilmente esperita in altri testi, planando sull’orrore senza bagnarvisi le ali; un libro efficace, necessario, che smentisce con intelligenza e smisurata sensibilità il senso antropico di onnipotenza, l’inesauribile, ostinato difetto della specie; e ci lascia con il monito del dubbio, il più grande dono per la mente e anche – verrebbe da dire chiudendo l’ultima pagina – l’unico seme possibile di ogni comunione, tolleranza e tenerezza.