Il pianoforte snocciola note a cascata, mentre le ragazze accennano piroette. Un po’ in disparte, Luisa (Hélène Rémy) fuma con fare languido. La musica acquista tonalità lugubri, sottolineate da lunghe note prodotte al theremin. Le ragazze si muovono con gesti lenti, sotto lo sguardo della mostruosa figura a stucco posta sul caminetto: le gambe incrociate, Luisa continua a fumare, mentre il ritmo accelera. La danza somiglia ora a un sabba: il balletto improvvisato sui ‘vampiri’ ha riportato alla luce la sensualità repressa che alberga nel microcosmo del corpo di ballo. Un vampiro ben più letterale, intanto sta facendo affiorare una Luisa diversa dalla timida ragazza che conoscevamo, una donna dallo sguardo sfrontato che fuma sigarette – gli atteggiamenti, cioè, che nel 1960 possono suggerire, con buona approssimazione, l’idea di emancipazione femminile
È la sequenza più celebre de L’amante del vampiro di Renato Polselli (1960): ma anche una formidabile allegoria del modo in cui i vampiri, da appena un anno, hanno conquistato le platee italiane, portandone alla luce un lato edonistico e civettuolo che al mito dell’umile Italia (tanto caro a sinistra quanto a destra) è radicalmente antitetico. La crisi concomitante di Chiesa e P.C.I. ha momentaneamente sparigliato le carte, allentando il controllo di intellettuali e gerarchie ecclesiastiche sui consumi culturali del pubblico. Il Dracula di Terence Fisher (1958) è probabilmente il primo film su cui l’Italia del benessere proietta il proprio bisogno di intrattenimento e di emozioni. L’Italia – isolata dalla censura fascista – aveva mancato il boom dell’horror degli anni Trenta, quello di Boris Karloff e Bela Lugosi, ma non può sottrarsi a quello dei Cinquanta, e anzi lo abbraccia con entusiasmo.
L’industria cinematografica, in quel momento al suo zenit, coglie l’occasione. I vampiri di Riccardo Freda precede di un anno la pellicola di Fisher, ma è la popolarità del Dracula interpretato da Christopher Lee a porre le basi per il fiorire del gotico italiano, con film che esplorano più o meno direttamente il tema vampirico: La maschera del demonio di Mario Bava (1960), Seddok di Anton Giulio Majano (1960), La strage dei vampiri di Roberto Mauri (1962), I tre volti della paura, ancora di Bava, e La cripta e l’incubo di Camillo Mastrocinque (entrambi del 1964). Non mancano le parodie (Tempi duri per i vampiri di Steno, del 1959) o tentativi di ibridare horror e peplum (Maciste contro il vampiro di Sergio Corbucci e Giacomo Gentilomo ed Ercole al centro della terra di Bava, entrambi del 1961).
I vampiri entrano nella cronaca. Nell’estate del 1959 i paparazzi inseguono Christopher Lee per la Roma della Dolce Vita. Il 19 giugno un quattordicenne milanese, Achille Canosi, si suicida con la canna del gas, proclamandosi “il figlio del diavolo” e inneggiando a “Dracula e Frankenstein”: nelle case popolari del quartiere Mazzini, a poca distanza dallo svincolo dell’Autostrada del Sole – nel 1958 ne è stata completata la prima tratta, da Milano a Piacenza – i mostri della Hammer hanno tranquillamente preso il posto di archetipi ben più sedimentati. Sempre a Milano, il 5 novembre, i carabinieri arrestano il diciannovenne Giuliano Ballerini, che nei mesi precedenti ha aggredito almeno tre donne e che la stampa ha soprannominato “il Dracula di Porta Genova”. I cinema di provincia addobbano gli ingressi con bare e drappi funebri, inconsapevolmente riecheggiando le furbe strategie di marketing adottate, a un oceano di distanza, dalla American International Pictures.
Nel 1959 la RAI manda in onda lo spettacolo radiofonico Il vampiro. È una piccola rivoluzione, per la Rai castigata di quegli anni, che sotto lo schermo del vampirismo veicola contenuti – morte, sangue, seduzione –che non supererebbero altrimenti il vaglio della censura. La compagnia di Raimondo Vianello, Sandra Mondaini e Gino Bramieri mette in scena la rivista Un juke-box per Dracula, fin troppo esplicita – sin dal titolo – nel creare un cortocircuito tra la moda dei vampiri e i nuovi riti della fruizione musicale. Uno dei successi estivi di quell’anno è Dracula cha-cha-cha di Bruno Martino, mentre il vampiro sbarca nei ritrovi del bel mondo. In via Veneto si organizzano feste a tema; a Milano, la cantante Rossana contamina le canzoni della mala con temi satanici, su musiche di Piero Trombetta. I vampiri invadono librerie ed edicole, a partire dal Dracula di Bram Stoker. La nuova edizione Longanesi si avvale della traduzione di Adriana Pellegrini, protagonista, assieme al marito Giovanni Nuvoletti, della Versilia più mondana (si toglierà la vita sette anni dopo).
Cosa ci trovano, nei vampiri, gli italiani del 1959? I contemporanei provano, in maniera brancolante, a spiegarlo, stupiti loro per primi dal fascino che una superstizione balcanica della prima età moderna riesce a esercitare sul pubblico dell’era atomica. Dalle colonne de La Stampa, il 2 giugno 1959, lo psicoanalista e parapsicologo Emilio Servadio evoca la fase orale dello sviluppo infantile, cui il morso del vampiro rimanderebbe: spiegazione curiosa, perché riduce il vampirismo alla mera dimensione della suzione – centrale, certo, ma non l’unica. In Dracula il vampiro, lo sceneggiatore Jimmy Sangster aveva insistito sul morso come metafora sessuale, ma I vampiri di Freda e Seddok di Majano, al confine fra horror e fantascienza, adoperano il vampirismo per esplorare, piuttosto, questioni di carattere bioetico; La maschera del demonio intreccia il tema del vampiro con quelli della stregoneria e della reincarnazione; L’amante del vampiro di Renato Polselli e La cripta e l’incubo di Mastrocinque – ma la considerazione vale anche per La maschera – rappresentano il vampiro come oggetto di un desiderio femminile represso, che infrange norme e stereotipi di carattere sociale.
Per molti autori italiani del periodo, dunque, il vampirismo è una metafora polivalente per esprimere quanto la civiltà ha abietto. È Guido Piovene a cogliere in particolare questo punto, rispondendo dalle pagine di Epoca al paternalismo di Emilio Servadio. Il sangue, scrive Piovene, è accessorio: il vampiro è anzitutto un essere malvagio, e dunque l’interesse verso il tema deve essere legato alle angosce, concrete e collettive, dell’era atomica – e, in senso lato, al problema metafisico del male.
La marginalità del sangue e la tendenza a interpretare il tema del vampirismo in chiave sociale hanno le loro radici in una cultura – come quella italiana – che vede una circolazione limitatissima o nulla dei ‘classici’ del gotico fino alla fine degli anni Cinquanta, e che dunque sviluppa il soggetto in modo completamente autoctono rispetto ai modelli anglosassoni. Il vampiro non è assente dalla cultura italiana, tutt’altro: ma gli esempi di letteratura sul tema tra fine Ottocento e primo Novecento nulla devono a John Polidori, Joseph Sheridan Le Fanu o Bram Stoker, generalmente prescindendo dal sangue, ibridando il vampirismo con un vasto raggio di temi – dalla psichiatria alla psicologia criminale e alla scienza positivista in genere – o adoperandolo come metafora per esplorare questioni politiche, come il crescente timore occidentale per le mire imperialistiche russe all’indomani della guerra di Crimea.
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È in questo contesto che, nel 1961, appare Io credo nei vampiri di Emilio De Rossignoli: volume singolare, nato dall’incontro tra due personaggi singolari. L’autore è un aristocratico di origine dalmata, residente a Milano: col suo vero nome scrive reportage sulla vita delle dive per i settimanali femminili, e sotto pseudonimo pubblica romanzi polizieschi per l’editore milanese Franco Signori. L’editore è Luciano Ferriani, pittore bolognese attivo a Milano sin dal dopoguerra. Ferriani dipinge a colori vividi, con tratto naïf e una singolare propensione al macabro che ne fanno un ideale punto d’incontro fra i due grandi pittori d’invenzione del giallo all’italiana: il Berto Consalvi de L’uccello dalle piume di cristallo di Dario Argento (1970) e il Buono Legnani de La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati (1976). Nelle intenzioni dei due, Io credo nei vampiri dovrebbe inaugurare una “Collana del Macabro” diretta dallo stesso De Rossignoli. Un secondo volume, annunciato in terza di copertina – Spiriti folletti e vergini ossesse, ossia le Apparizioni, le Visioni spaventose, le Streghe e la Magia, “versione moderna di Gian Carlo Viganotti da un testo del 1858” – non vedrà mai la luce, ma il progetto ci dice molto sull’impresa che Ferriani e De Rossignoli hanno in mente. Viganotti è uno dei tanti personaggi che in quegli anni bazzicano il mondo del cinema, co-sceneggiatore (assieme a Lucio Fulci) di Un giorno in pretura di Steno (1953); e il libro del 1858 è il Manuale di spiriti folletti pubblicato ad Asti da una non meglio precisata “Società di Letterati Italiani”, centone che in pieno Risorgimento raccoglieva alla rinfusa (e senza dichiararlo) brani di Collin de Plancy, Pico della Mirandola e Cesare Cantù. Combinare erudizione e cultura pop, dunque, con una spruzzata di gotico padano: Ferriani, del resto, è un appassionato degli affreschi dell’Oratorio dei Disciplini di Clusone, nel bergamasco, e li rammenta sia nel logo della collana – una stilizzata danza macabra – che nella copertina di Io credo nei vampiri. Quanto alla veste editoriale, Io credo nei vampiri è un tomo ponderoso, stampato su ottima carta, dalla copertina in cartone spesso antracite e la rilegatura in tela rosso sangue. Dal cinema vengono la maggior parte delle illustrazioni, mentre il testo salta dalla letteratura al folclore, dallo schermo cinematografico all’attualità, fino alla narrazione autobiografica. Del resto, autobiografico vuole (o pretende di) esserlo fin dal titolo: Io, dice De Rossignoli nel primo libro firmato col suo vero nome, credo nei vampiri. Ponendo così il lettore di fronte a un dilemma: è un saggio? è finzione? o è entrambe le cose?
Anzitutto è una provocazione, e l’obiettivo è un’antologia pubblicata da Feltrinelli appena un anno prima: I vampiri tra noi, curata da Ornella Volta e Valerio Riva, aveva presentato per la prima volta al pubblico italiano testi fino ad allora inediti come Il vampiro di Polidori o la Carmilla di Le Fanu, ma aveva a malapena nominato Stoker o Richard Matheson, segno – agli occhi di De Rossignoli – di una malcelata snobbery. L’antologia si apriva con la confessione scritta di John George Haigh, un serial killer britannico giustiziato nel 1949 e autodefinitosi vampiro. Le faceva da epigrafe una citazione, ironicamente allusiva, presa da Dracula: “La forza del vampiro è nel fatto che nessuno crede alla sua esistenza”. “Io non credo nei vampiri”, aveva commentato il regista Roger Vadim nella presentazione del volume, “ma credo in quello che li ha ispirati”.
Con il titolo del proprio libro, De Rossignoli inverte provocatoriamente l’affermazione di Vadim: inoltre, con scelta chiaramente deliberata, pone la stessa citazione da Stoker a epigrafe dell’intero volume. E tuttavia, benché la lettera della citazione sia identica, il senso di quel ‘credere’ è ora declinato in modo radicalmente diverso. Messa a commento della confessione di Haigh, ne I vampiri tra noi, la frase si limitava ad ammiccare al lettore, giocando sulla folle convinzione del “Vampiro di Londra”. In Io credo nei vampiri, essa acquista risonanze inedite. Siamo proprio sicuri, si chiede De Rossignoli, del fatto che i vampiri non esistano? Se pensiamo ai pallidi succhiasangue del folclore e del cinema, la risposta è ovvia: ma se pensiamo a John Haigh, non possiamo esserne più così certi. Dopo la sua prima vittima, scrive De Rossignoli, Haigh “bevve il sangue di altre otto gole, prima che la forca della prigione di Wandsworth venisse eretta per lui. Non è un personaggio di Don Calmet, ma un uomo del nostro tempo. Come lo chiamereste, tecnicamente?”
Il fatto è che, per De Rossignoli, Haigh non è un’eccezione, spiegabile con gli strumenti della psicoanalisi o della psicologia sociale; e la sua brama di sangue non è un desiderio, ma una condanna, impressa come un peccato originale nella sua stessa natura umana. “Noi arriviamo faticosamente alla luce”, scrive De Rossignoli, “rubando sangue a nostra madre. E, quando siamo nati, le togliamo il latte, che è ancora sangue e forza e vita”. Gli esseri umani, prosegue, crescono “mangiando carni morte, bevendo vini nati dal fermento dell’uva, amando”, ed è nell’amore, “che è unione e sottrazione”, che “l’uomo raggiunge il vertice della sua parabola vampirica. Ruba emozioni, sensazioni, pensieri. È un vampiro mentale che raggiunge la catarsi con l’amplesso”. Anche il lavoro e la società “dividono gli uomini in due grandi eserciti: di coloro che cedono e di coloro che prendono”, sino alla visione apocalittica di un mondo in cui tutti sono – o possono diventare – vampiri, perché è la stessa vita – il nascere, il nutrirsi, l’amare, il conoscere – a essere, in realtà, non-vita e parassitismo.
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Nell’avvicinare Io credo nei vampiri, i primi lettori restano interdetti. Era uno “strano libro”, commenta Sergio Bissoli, dal “titolo discutibile” ma entusiasmante. “Emilio De Rossignoli. Chi era costui?”, ricorda Danilo Arona. “Un grande, di sicuro. Sapeva tutto e di più sul magico e terrificante mondo dei vampiri. E scriveva non da adulto snob, ma da adulto saggio, perfettamente in grado di farsi comprendere da un ragazzino. E ancora – il dato più importante, perlomeno per me – Emilio ci credeva. Al punto tale che la sua fede era divenuta il titolo del tomo”. Dopo anni di romanzi pubblicati sotto pseudonimo – Martin Brown, Emil Ross, Tim Dalton, Ed Rhodes, Sandy James –, Io credo nei vampiri è la prima opera di De Rossignoli uscita col proprio vero nome, e l’autore non si nasconde: “Emilio de’ Rossignoli”, recita il risvolto di copertina originale, “è nato nobile di origine dalmata, a Lussino in provincia di Pola, nel 1920. Ha studiato a Trieste e a Genova, dedicandosi molto presto al giornalismo. Dopo la guerra si è specializzato nel campo dello spettacolo. […] Ha scritto anche alcuni romanzi gialli”. Il libro è contrappuntato da ricordi personali, significativamente sparsi tra memorie dotte, letterarie e cinematografiche, e ovviamente impossibili da verificare. “La mia trisavola fu sepolta viva”, ricorda De Rossignoli, “a vent’anni dall’inumazione, il suo corpo fu ritrovato intatto nel sepolcreto di famiglia”: secondo alcuni occultisti, una persona sepolta viva può diventare un vampiro, e se questa teoria “è esatta, ella può essere uscita per settemila notti, alla ricerca di sangue umano”. Prigioniero in un campo di lavoro in Germania, all’indomani dell’8 settembre, De Rossignoli ascolta storie di vampiri dalla bocca di una prigioniera sovietica, e altrettanto fa nei villaggi balcanici della propria giovinezza. A Venezia, alla ricerca di incunaboli con cui nutrire il proprio interesse, ha conosciuto un medico ungherese, tale Stephen Gabor, morto “durante la rivolta ungherese del 1956 […] da galantuomo, combattendo per la sua Idea”. Una notte, nel cimitero di un villaggio a trecento chilometri da Budapest, Gabor ha visto un vampiro. Quello che non gli ha detto è che quel vampiro l’ha morso: lo rivelerà nella sua ultima lettera, con cui De Rossignoli – con coup de théâtre da narratore consumato – conclude il libro. La lettera è siglata 3 novembre, il giorno in cui il KGB, in spregio alle norme del diritto internazionale, aveva arrestato Pál Maléter, comandante in capo dell’esercito ungherese e capo militare della Rivoluzione. Il giorno dopo, l’Unione Sovietica aveva invaso l’Ungheria.
Menzogne, naturalmente: ma non completamente dissociate da una certa musica che, nei primi anni Sessanta, girava parecchio intorno, come se De Rossignoli o gli autori dei Racconti di Dracula mettessero in pratica, senza volerlo, qualcosa che in quegli stessi anni si veniva delineando nella teoria. L’autorialità come costrutto, maschera e performance; la scrittura come nozione alternativa al mito romantico della letteratura, e lo scrittore come opposto all’autore; la scrittura come gioco, menzogna e prassi combinatoria, in un’epoca di innocenza perduta; e il fantastico come unica opzione realista. Le date, del resto, parlano chiaro: Opera aperta di Umberto Eco è del 1963; La letteratura come menzogna di Giorgio Manganelli è del 1967, lo stesso anno in cui Roland Barthes formula il concetto di “morte dell’autore”; e Qu’est-ce qu’un auteur? di Michel Foucault è del 1969. Sono (anche) romanzi come quelli di De Rossignoli e dei suoi innumerevoli alter ego a insegnare quella diffidenza verso chi narra su cui si fonda il disincanto postmoderno.
In Io credo nei vampiri, il narratore non è mai affidabile, e tantomeno quando sconfina nell’autobiografia o si richiama alla propria esperienza diretta in modo così palesemente inverosimile. Anche l’esibita erudizione del libro è fallibile: ad aneddoti effettivamente desunti da fonti verificabili, De Rossignoli alterna storie ed episodi di propria invenzione; la bibliografia non include testi effettivamente adoperati, e – per contro – comprende libri scopertamente mai visti, addirittura libri inesistenti, con deliberata volontà di spiazzare il lettore. Nel trattare di Io sono leggenda di Matheson, De Rossignoli lo presenta come “uno dei due soli romanzi moderni sui vampiri”: l’altro è Lilith, di Jarma Lewis, “nata in Cecoslovacchia, ma da molti anni residente negli Stati Uniti’, autrice di ‘una serie di romanzi d’orrore’ che mescolano ‘abilmente elementi avventurosi e polizieschi con la demonologia”. Ma Jarma Lewis è solo uno degli pseudonimi dello stesso De Rossignoli, rubato a un’attrice di secondo piano della Hollywood degli anni Cinquanta, e Lilith altro non è che Il mio letto è una bara, pubblicato l’anno seguente da Franco Signori. Nel cuore di Io credo nei vampiri, dunque, De Rossignoli recensisce se stesso: l’edizione statunitense di Lilith, che appare regolarmente in bibliografia (luogo di stampa: New York), è a tutti gli effetti uno pseudobiblion, che crea – fra l’inesistente originale e la sua fasulla traduzione, e fra il De Rossignoli saggista e il De Rossignoli romanziere – un cortocircuito pienamente postmoderno. Il mio letto è una bara è un romanzetto di vampiri, con copertina ammiccante d’ordinanza; ma Lilith è un gioiello di complessità, che sotto lo schermo degli “elementi avventurosi e polizieschi” abbraccia l’intera tradizione del racconto di vampiri e la stravolge. La protagonista omonima, scrive De Rossignoli, “è un personaggio unico nella letteratura vampirica”, perché si tratta di “un’eroina positiva”. Lilith non morde per contagiare, ma solo per nutrirsi: sa che la sua natura è una maledizione alla quale non vuole condannare i viventi, e l’unico – nel libro – a compiere atti di volontario sadismo è il medico che dà la caccia a lei e ai suoi simili, e che ai vampiri che tiene prigionieri inietta, per torturarli, soluzioni di allicina, il composto sulforganico che dà all’aglio il suo caratteristico odore. Per questo, conclude De Rossignoli, “Lilith è una figura umanissima e assai simpatica”, e forse – aggiunge – “segna l’inizio di un ciclo nuovo nella letteratura vampirica, quello della pietà per i mostri”. E se Io credo nei vampiri non sarebbe nemmeno arrivato nelle librerie – sarebbe finito subito sugli scaffali dei remainder, iniziando il percorso carsico che gli avrebbe dato, a decenni di distanza, uno status di gemma leggendaria e introvabile – l’intuizione di De Rossignoli si sarebbe rivelata quanto mai profetica quando, quindici anni dopo, sarebbe arrivato in libreria il secondo romanzo, dopo Lilith, ad assumere il punto di vista del vampiro: in quel caso, attraverso un’Intervista.
Io credo nei vampiri è stato ristampato dalla Gargoyle Books di Roma nel 2009. A Emilio De Rossignoli ho dedicato, assieme a Massimiliano Boschini e Anna Preianò, il volume L’uomo che credeva nei vampiri, uscito per Profondo Rosso nel 2018, che include anche Lilith/Il mio letto è una bara.