Ha ragione Alfonso Berardinelli quando scrive che in questo primo ventennio del Duemila – epoca in cui tutto cambia – pare che “il peggio abbia sopraffatto il meglio”. Pasolini, 50 anni dopo il suo assassinio, nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975, nel pieno della sua presenza pubblica composta di articoli e interviste, e con la straripante visionarietà delle sue opere poetiche, narrative e filmiche, è quel corpo dal cuore esploso all’idroscalo di Ostia. È tenuto in braccio come il Cristo nella Pietà (opera dell’artista urbano Ernest Pignon-Ernest) da un sé stesso che, in giubbotto di pelle, ci guarda dritto negli occhi.
Ma la poesia, prima di tutto, la poesia scrive e riscrive il mondo che Pasolini ha visto in vita. Occorre ricordare che anomalie, poliedricità, stando lontani dagli slogan, rivelano come la poesia si assesti negli angoli più riposti dell’epoca, non soltanto nelle piazze in bella luce. Chi si appoggia spiritualmente e carnalmente alla poesia, guardando in faccia la realtà, trovando i padri giusti (pure uccidendoli quando serve), certamente rasenta il pericolo quotidiano. Pochi se ne rendono conto, ma Pasolini lo sapeva. Pasolini guardava la storia e la preistoria, incrociava i territori estremi d’Italia e d’Africa, le macerie messe in luce da Le ceneri di Gramsci, gli undici poemetti scritti nei primi anni Cinquanta, che davano piena ragione poetica di sé. Le terzine di cui sono composti diffondono allarmi e acute tenerezze, rivolte soprattutto ai ragazzi “di vita violenta”, in bilico su torto e ragione, tra enfasi e rigoglio linguistico, e unilateralità estrema. Sono le ceneri di Pasolini disperse nel brusio e dimenticate nella massa: un antidoto ai contrapposti moralismi che ancora oggi circondano il libro, e non solo.
I due saggi di Dario Bellezza (Morte di Pasolini e Il poeta assassinato), raccolti per la cura di Stefano Bottero, si confrontano con un’eredità ustionante: pubblicati nel 1981 e nel 1996, raccolgono tratti di biografia personale e pubblica fortemente legati all’opera, alla materia letteraria propria e dell’amico. Non si tratta di pagine convenzionalmente critiche, ma di un’estrema riflessione sull’universo creativo che, in Bellezza, non può prescindere dall’omosessualità. Il sentire artistico del poeta romano si mescola, spesso in modo controverso come in una lotta, alla morte dell’amico, già profetizzata da Pasolini nei tempi in cui l’Italia gli sembrava un tugurio pieno di televisioni suscitanti invidia dagli stessi abitanti. La letteratura uccide come vita, diceva – anche Bellezza lo sa ritrovandosi al centro del conformismo e consumismo successivi all’orribile morte di Pasolini. Ma niente torna, non si stancava di ripetere Arbasino, nell’iper-precisa storia giudiziaria che mette in scena un quadro così “volutamente pasoliniano”. Così come la morte analoga di Giangiacomo Feltrinelli, con tutte le “figurine a posto”.
L’opera di Pasolini straripa da tutte le parti, questo lo sappiamo, ma quanto la sua poesia, nella propria condizione di allarme continuo, sfiora le anime di coloro che forse ascoltano e forse no? Una sorta di lingua primigenia si allarga ai film – sottolinea il regista Mario Martone – e consente allo sguardo timbrico del poeta di riscrivere il mondo con la macchina da presa. Una lingua che oggi dovrebbe farci oltrepassare il lutto, per consentire d’essere discordi col mondo robotico e informatico che prelude sempre più a un controllo sociale autoritario. Fuori dai ritornelli, guardiamo al corpo di Pasolini entrando nelle sue poesie con la voglia di fare i conti con l’insieme multiforme (edizione in dieci volumi curati da Walter Siti nei Meridiani) che ha lasciato, abbandonando ogni tentazione di superiorità.


