Elvira Mujčić / Come il Kosovo vero finì per diventare favola

Elvira Mujčić, La buona condotta, Crocetti editore, pp. 227, euro 18,00 stampa, euro 8,99 epub

“D’improvviso ho mutato idea e linea. Mi saltò in mente una nuova storia, individuale, un intreccio romantico, non già sullo sfondo della guerra civile in Italia, ma nel fitto di detta guerra” scriveva Beppe Fenoglio nel marzo 1960 all’editore Livio Garzanti, annunciandogli non solo di aver cestinato ben ventidue dei trenta capitoli che avrebbero dovuto comporre l’imminente romanzo, ma persino di aver ricominciato daccapo l’intero lavoro di stesura, che in seguito porterà al capolavoro intitolato Una questione privata. Dopo aver immaginato la gioiosa reazione di Garzanti a quella missiva, ho ripensato allo scrittore delle Langhe leggendo l’introduzione dell’ultima opera di Elvira Mujčić, La buona condotta. Un incipit teatrale, nel quale i protagonisti del romanzo vengono presentati uno ad uno, accompagnati dal significato etimologico dei loro nomi, quindi dalle implicazioni narrative facilmente deducibili da essi. Ma se dietro il Milton di Fenoglio si celava la grande letteratura inglese del Diciassettesimo secolo trasposta nei valori della Resistenza, cosa si nasconderà mai dietro le maschere balcaniche di Mujčić?

Dopo le opere di ispirazione autobiografica o di ambientazione bosniaca, che alternavano con maestria il dramma familiare e la satira più tagliente, dopo il geniale finto vademecum Consigli per essere un bravo immigrato, Mujčić ha deciso di affrontare un tema ostico e complesso, anche per la sua attualità: la difficile convivenza tra la popolazione serba e quella albanese nel Kosovo. Lo ha fatto cercando un approccio diverso rispetto ai titoli precedenti; per questo La buona condotta appare anzitutto la sintesi di un metodo, uno stile e una tecnica di scrittura più affini al nuovo pubblico dell’autrice, formato dai lettori dell’universo Feltrinelli.

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Il protagonista del romanzo, Miroslav  – un medico che porta la pace (“mir”) già nel proprio nome – non può quindi che essere il sindaco buono e pacificatore della città kosovara di Šumor, eletto quasi a sorpresa da una misteriosa maggioranza trasversale serbo-albanese. Mentre Nebojša, che nel suo nome reca l’assenza di paura, non può che rappresentarne l’alter ego manicheo, un truffatore ex galeotto fatto calare da Belgrado per esautorare il primo cittadino e fomentare gli ardori nazionalisti. Attorno a questa semplice antitesi, gravitano poi le figure di Nada, la fragile moglie di Miroslav; del fedele Zdravko e della folle sorella Ludmila; del sulfureo Vlado e degli altri cittadini serbi di Šumor, tutti posti in bilico tra opportunismo e rancore. Potrebbero esserci le elementari premesse per un intreccio caratterizzato dal progressivo mutamento dei personaggi-maschera: per un’opera di formazione composta da aspri confronti dialettici fondati sulle contraddizioni che certamente nel profondo Kosovo non mancano. Invece La buona condotta decide di adagiarsi (e adagiarci) immediatamente nel clima delle pacate analisi introspettive dei personaggi, condite da continui bilanci esistenziali. Quasi volesse suggerirci in nuce il clima spiccatamente psicologico-morale che dominerà l’intera narrazione.

A differenza dei personaggi di Fenoglio, però, quelli di Mujčić non sono collocati “nel fitto della guerra”, ma in un anonimo anno domini 2012, nel quale gli echi del decennio bellico 1989/1999 e dell’indipendenza unilaterale proclamata dal Kosovo nel 2008 paiono affiorare in modo didascalico, come semplici elementi accessori per la caratterizzazione di alcune “questioni private”, la cui cifra portante è la fatale conversione al Bene. L’intero arco del romanzo si fonda su uno strano processo di redenzione, nel quale la dimensione storico-sociale del Kosovo viene ridotta a un microcosmo d’appendice incentrato sulla famiglia, sulle crisi genitoriali, sulla tenuta dei rapporti affettivi, sulle invidie incrociate, sugli amori improvvisi. Quindi su quanto di più inflazionato impera da anni nella fiction narrativa italiana, anche quando getta un occhio verso i Balcani[1].

Scegliendo poi di escludere in toto i kosovari di origine albanese dal novero dei personaggi del romanzo, Mujčić ha ristretto ancor di più lo spettro del suo racconto, compromettendone in parte l’efficacia. Non perché nelle narrazioni debbano valere le quote di rappresentanza, quanto per il fatto che l’autrice ha ridotto la maggioranza della popolazione di Šumor a una scenografia di fondo, una quinta visibile sporadicamente e solo nella forma indistinta della massa (“gli albanesi”). Così la città che avrebbe potuto incarnare le ragioni del superamento del conflitto tra le due etnie – mostrandole entrambe – diventa un palcoscenico a uso e consumo di una strana comunità serba, nella quale ogni spigolo viene sapientemente smussato e ogni animo edulcorato.

In nome della “buona condotta” dell’opera, le tensioni profonde che riempiono anche in queste settimane le pagine di cronaca internazionale si trasformano in screzi folkloristici. E quando la rabbia nazionalista serba esplode, non parlano mai le armi, né le minacce vere, ma solo lo shit storming da social. A Šumor la vera violenza non esiste già più – contrariamente a quanto accade nel resto del Paese reale – così i pericoli maggiori per la sicurezza dell’ansioso Miroslav possono tranquillamente essere i commenti degli hater ai post delle pagine locali, quanto i velenosi pettegolezzi degli ubriachi all’interno dell’osteria di Mladen.

Siamo perciò di fronte a una favola in senso nietzschiano, nata dal “mondo vero” come astrazione inarrestabile. La buona condotta esprime un desiderio di normalità auspicabile e confortevole, che per osmosi passa anche attraverso la normalità degli elementi caratteristici della favolistica. Alcuni esempi tra i più eclatanti di cui si compone il romanzo sono: la lunga descrizione di sogni che il lettore deve ritenere reali, anche quando odorano di onirico fin dal principio; il tema della follia infantile e candida negli adulti; il topos dell’innamoramento folgorante con conseguente fuga clandestina degli amanti. A questi va aggiunto il finale consolatorio e comico, tratteggiato secondo gli stilemi caratteristici della commedia cinematografica di scuola ex jugoslava. A Mujčić va ascritto il merito di non aver voluto abbandonare le sue origini, personali e letterarie. In quest’opera ha però palesemente rinunciato a quella spiccata acutezza che l’aveva condotta a indagare in modo peculiare i suoi Balcani, restituendoceli sotto una luce davvero originale.

Ne La buona condotta il nobile messaggio di conciliazione (tra i serbi moderati e i nazionalisti, prima ancora che tra i serbi e gli albanesi) pare aver preso il sopravvento sulla composizione, divenendo una di quelle urgenze semantiche che solitamente si divorano la complessità dell’intreccio. Ciò ha determinato per le maschere etimologiche annunciate in apertura un’eccessiva prevedibilità. Concetto, questo, purtroppo molto distante dalla “incredibile semplicità” delineata da Pasternak nei meravigliosi versi della poesia Le Onde : “frequentando il futuro nella vita di ogni giorno, / non si può non incorrere alla fine, come in un’eresia, / in un’incredibile semplicità”.

[1] Il riferimento all’isterico desiderio di maternità surrogata che fa da tema portante del romanzo Venuto al mondo di Margaret Mazzantini non è puramente casuale.