Grazie a Giorgio Manganelli sappiamo ormai da più di cinquant’anni che “la letteratura è menzogna”. Oggi, grazie ad Elvira Mujčić, realizziamo che anche le narrazioni biografiche dei richiedenti asilo esigono la medesima falsità. O forse no.
Il “diniegato” Ismail, originario del Gambia e in fuga dalla dittatura Yahya Jammeh, ha consapevolmente mentito alla commissione territoriale che ne ha bocciato la domanda di protezione internazionale o ha soltanto raccontato una versione di comodo, utile a consolidare lo stereotipo del “povero africano sfortunato” per il tempo minimo necessario a ottenere i documenti?
Su questo pilatesco quid est veritas si fonda tutto l’impianto del ricorso che il ragazzo è costretto a redigere.
Un ricorso che però, lungi dall’essere noiosa pratica legale, diventa corrispondenza storica: il racconto della vita (edulcorata? falsa?) di Ismail si rivela un gioco di specchi degno di un’opera di Escher. Un caleidoscopio nel quale l’autrice si ritrova a essere al tempo stesso consigliera, complice, confidente e infine ex rifugiata essa stessa.
È fondata, infatti, su una paradossale menzogna anche l’identità burocratica che la profuga bosniaca Elvira Mujčić da Srebrenica mise per iscritto nel lontano 1992.
In particolare è un falso il suo reale luogo di nascita: dato che per le nuove mappe di guerra la città natale jugoslava cadeva in territorio serbo, l’allora dodicenne Elvira decise di “annetterla” per convenienza alla neoindipendente Bosnia Erzegovina, con l’intento di facilitare gli schematici ragionamenti protocollari dei funzionari della questura di Brescia. Il risultato finale – raccontato in un intenso climax umoristico – fu quello di ritrovarsi ad avere addirittura origini tedesche nel computer dell’Università, pochi giorni prima della laurea.
L’autrice dovrebbe, ora, istruire il “diniegato” Ismail sull’arte di mentire ai suoi futuri esaminatori, rassicurandolo circa la possibilità di rinunciare completamente alla verità in favore del verosimile. Ovvero di utilizzare ciò che per i greci era l’eikòs inteso proprio come “verosimiglianza” per giungere all’oikos, la “casa”, il “domicilio” – e per estensione la “patria”, in questo caso adottiva.
Nel susseguirsi di queste lezioni informali, però, i due scoprono che l’autobiografia, lungi dall’essere un rassicurante genere letterario ad alto tasso di narcisismo, è in primis la somma delle ferite che i protagonisti rimuovono e cancellano consapevolmente ogni giorno, per donarsi quella sopravvivenza minima che il loro passato tenta ancora di sabotare nelle ripercussioni del presente.
La magistrale padronanza dei registri permette a questo punto all’autrice di rovesciare radicalmente il tono comico parodistico della prima parte del racconto per addentrarsi nel dramma – privato e collettivo – e assestarci un colpo fortissimo allo stomaco.
Le direttive ministeriali che in questi anni richiedono alle commissioni la drastica diminuzione dell’accettazione delle domande di accoglienza – citate nella loro gelida versione email – non sono soltanto la riedizione democratica dell’Eichmann di Hannah Arendt, ma ancor più “banalmente” si rivelano le pietre tombali di ogni narrazione migrante. Anche di quelle che portano sulle loro spalle ben ventisette anni di consolidata cittadinanza come nel caso dell’autrice/protagonista.
Nel nostro processo di selezione dello straniero buono, tali narrazioni devono farsi libro quasi per necessità e per la stessa necessità devono riaprire il vaso di Pandora di quei lutti e di quelle memorie che l’autrice stessa vorrebbe rifuggire nel loro aspetto più sterile. Ismail, al contrario, deve recuperarle integralmente – quelle memorie dolorose – per poi esporle con la sufficiente credibilità, solo per poter sperare di raggiungere l’autrice stessa nello status celeste della “protezione internazionale”. Con un gap incolmabile, però: Ismail sarà vagliato, esaminato, ingannato in buona fede da un “tribunale” territoriale che in parte deve tentare di smontare continuamente la sua narrazione per testarne la realtà. Perché a differenza delle guerre passate, le dittature africane contemporanee vengono considerate semplici forme di governo.
Incorniciato da pochi altri personaggi che bilanciano bene l’intreccio (e che chiunque abbia avuto almeno una minima esperienza di accoglienza riconoscerà come non stereotipati) il libro di Elvira Mujčić è la negazione del vademecum ironicamente suggerito dal titolo.
Si pone invece come la più dura conferma, nel panorama tardo adolescenziale della nostra letteratura, del fatto che alla base di ogni diritto umano vi sia un “paradosso della narrazione” e in questo paradosso sia contenuto il germoglio di ogni identità socialmente riconoscibile.
In modo simile a quanto fece Daniel Pennac con l’esperienza del racconto nel suo saggio Come un romanzo (Feltrinelli, 1993), questi Consigli della Mujčić vogliono quindi restituire piena autorevolezza anche alle bugie, ai vuoti, alle omissioni, ai caratteri apocrifi delle biografie orali di quanti vivono lo stigma degli apolidi.
Fino a farci intravedere il nodo gordiano che imbriglierà per qualche anno ancora la nostra retorica politica sull’immigrazione: cerchiamo l’altro, lo straniero, nel trauma della sua fuga per tutelarlo umanamente, per integrarlo democraticamente o per assimilarlo culturalmente?