Filippo Tuena / La memoria sul palcoscenico

Filippo Tuena, Valzer con mia madre da ragazza, Oligo, pp. 60, euro 13,00 stampa

I greci, come al solito, avevano le idee abbastanza chiare: gli artisti vengono ispirati dalle muse, nove in tutto come le arti che si praticavano all’epoca. Se eri un astronomo (all’epoca considerato artista), ti aiutava Urania, che poi fece carriera molto più tardi in tutt’altro ambito, tra alieni astronavi e androidi. Se invece danzavi, eri sponsorizzato da Tersicore. Ma la madre di tutte e nove le muse era, guarda un po’, Mnemosyne, la dea della memoria. Insomma, già ai tempi di Sofocle si sapeva bene che nelle arti, inclusa la letteratura, nulla si creava se non si ricordava.

Non è dunque un caso se uno dei più interessanti scrittori italiani, uno di quelli che difficilmente vedremo a tracannare Strega, intesse da anni un discorso sulla storia (la figlia della memoria che più somiglia alla madre, restando alla mitologica personificazione greca), sui fantasmi (che in quanto revenants, come dicono i francesi, ritornano né più né meno come ricordi), e sull’atto stesso della rimemorazione. Parlo di Filippo Tuena, che in questo breve volumetto ci porta subito “all’interno di un immenso teatro a ferro di cavallo”, col palcoscenico ingombro di “oggetti alla rinfusa”, forse in preparazione di uno spettacolo, forse materiali da usare per il restauro dell’edificio, che non è messo molto bene, tra dorature screpolate e tappezzerie lacere.

L’idea del teatro della memoria è di Giulio Camillo Delminio, umanista vissuto tra Quattro e Cinquecento, che avrebbe dovuto realizzare un edificio mnemonico, dove chi si fosse piazzato al centro del palcoscenico avrebbe avuto intorno una serie di immagini simboliche legate alle varie branche del sapere, interconnesse tra loro in modo da poter recuperare agevolmente tutto lo scibile umano. Praticamente, la Wikipedia analogica rinascimentale (ed esoterica). Delminio ricevette anche un finanziamento da re Francesco I di Francia per realizzare il suo teatro, e ancora si dibatte se ci sia riuscito o meno.

Il teatro della memoria di Tuena è più modesto: si accontenta di evocare i ricordi della madre dello scrittore. Abbiamo quindi quella che i teorici della letteratura più aggiornati chiamerebbero post-memory (post-memoria per i puristi), ovvero il ricordo di avvenimenti vissuti da altri (spesso i genitori, o altri parenti stretti) e trasmessi tramite il racconto, con tutti i rischi di rielaborazione, autocensura, dimenticanza ecc. che ciò comporta. Esempio classico di post-memoria è il memoriale grafico Maus, di Art Spiegelman, nel quale il fumettista americano recupera i ricordi del padre ex-detenuto ad Auschwitz (Mauschwitz nel memoriale) mediante una serie di interviste registrate.

Nel suo piccolo, anche Valzer con mia madre da ragazza è un atto di post-memoria, attraverso il quale Tuena recupera frammenti dell’infanzia della genitrice, e della propria, e così facendo recupera la terra d’origine della famiglia materna, quell’Istria che oggi sta in Croazia. E così inevitabilmente – come spesso accade nello scrittore romano emigrato a Milano – la storia personale s’intreccia con quella collettiva (così è per esempio, a leggere tra le righe, in Tutti i sognatori), le compagne di classe ebree nel liceo di Fiume alludono a tutta la complicata tragedia della frontiera orientale, e all’altra, ben più ampia, della Shoah.

Tuena, onestamente, non cerca di ricomporre il tutto in forma romanzesca, riempiendo i buchi; anche nelle sue opere maggiori, l’atto del ricordo, anche in forma post-memoriale, non nasconde le falle, i vuoti documentali, le amnesie, i buchi neri (basti leggere Le variazioni Reinach per rendersene conto). E questo rientra completamente nella definizione della post-memory come originariamente formulata da Marianne Hirsch, perché anche gli squarci nell’arazzo tessuto della memoria devono restare lì, a ricordarci che non è possibile rammentare tutto, e che certe volte di intere storie restano poche righe e talvolta una sola foto in bianco e nero.

Insomma, questa piccola opera dell’autore di Ultimo parallelo e La voce della sibilla getta luce su tutta la sua produzione, e induce a sospettare che dietro ogni atto di memoria ci sia inevitabilmente una perdita, qualcosa o qualcuno o qualche luogo che non si può più raggiungere, inghiottito dal vortice inarrestabile del tempo.

(Colgo l’occasione per esortare qualche editore di buona volontà a tradurre The Generation of Postmemory: Writing and Visual Culture After the Holocaust di Marianne Hirsch, ancora riservato a quei lettori italiani che non hanno problemi con l’inglese. Ma si sa, questo è il paese dall’amnesia facile, figurarsi se interessa un ragionamento sui meccanismi della memoria).