L’ultimo libro di Guido Barbujani, biologo genetista specializzato in genetica delle popolazioni e docente all’Università di Ferrara, assomiglia a un album di famiglia. Raccoglie infatti con tanto di foto – ricavate in prevalenza dall’opera straordinaria di Kennis&Kennis, Adrie e Alfons, due gemelli identici olandesi scultori specializzati in ricostruzioni paleontologiche – il nostro albero genealogico di Ominini, la sottofamiglia zoologica che comprende noi sapiens e tutti i nostri progenitori estinti da quando, tra i sette e i cinque milioni di anni fa, ci siamo separati dal nostro parente scimmiesco più prossimo: lo scimpanzè (il termine non va confuso con Ominidi, la famiglia zoologica che invece include anche le scimmie antropomorfe).
Si parte infatti da Lucy, l’Australopithecus afarensis, di circa 3,3 milioni di anni fa, ancora Pithekos, cioè scimmia e non ancora Homo, ma già perfettamente eretta e bipede come dimostrano le impronte di tre altri esemplari ritrovate a Laetoli in Tanzania nelle ceneri solide del vulcano Sadiman; una specie ancora in qualche modo parzialmente arboricola se è vero che Lucy (chiamata così da Lucy in the Sky With Diamonds dei Beatles, canzone che Johanson, il paleontologo che l’ha identificata, stava ascoltando mentre ne ricomponeva lo scheletro) è morta, come dimostrerebbero le fratture sui suoi resti, schiantandosi al suolo dopo una caduta dall’alto. Si passa poi all’Homo ergaster di 1,6 milioni di anni fa, ormai a tutti gli effetti già Homo come il meno evoluto e meno definito Homo abilis, cioè già pienamente capace di produrre e utilizzare artefatti, con un cranio contenente un cervello potenzialmente in grado di elaborare una qualche forma di linguaggio e presumibilmente già “nudo”, cioè non più peloso. La prima escursione fuori dall’Africa però la fa l’Homo georgicus di 1,8 milioni di anni fa, primo migrante della storia, dal cranio piccolo più vicino all’abilis che all’ergaster, ritrovato a sud del Caucaso, spostando indietro di quasi un milione di anni la prima migrazione. Più famoso l’Homo erectus, di 500 mila anni fa, che fino a non molto tempo addietro si chiamava pitecantropo, secondo la definizione di Ernst Haeckel, a cui si attribuisce la scoperta del fuoco e quindi il primo consumo di cibi cotti. Se l’erectus di cui non siamo ancora riusciti a studiare il DNA, non può essere considerato fra gli antenati diretti dell’uomo moderno, l’Homo heidelbergensis, di 350 mila anni fa, così chiamato perché il suo primo fossile è stato ritrovato nei dintorni di Heidelberg, è invece il comune progenitore dei cugini neandertal (gli europei), di noi sapiens (gli africani) e dei più misteriosi denisoviani (gli asiatici); era già dotato di un cervello delle dimensioni del nostro e di armi da lancio rese acuminate col fuoco: i resti di un bambino gravemente disabile sopravvissuto fino a cinque anni dimostrano che si prendeva cura degli inermi, quelli di un cranio fratturato da due colpi arrivati con lo stesso angolo di incidenza sono l’altrettanto inequivocabile prova del primo omicidio intenzionale documentato. L’accumulo di un gran numero di spoglie nello stesso luogo – Sima de los Huesos in Spagna – ha addirittura fatto formulare l’ipotesi che già l’heidelbergensis praticasse riti funebri. Si arriva così all’Homo neanderthalensis, tra i 150 mila e i 40 mila anni fa, un po’ il divo fra gli antenati: dal gran nasone, adatto a meglio riscaldare l’aria inalata nel gelo dell’Europa dell’Era glaciale wurmiana, pelle chiara e, probabilmente, capelli rossi e lentiggini. La sua dieta quasi esclusivamente carnivora provocherà, con il progressivo rialzarsi delle temperature e la conseguente scomparsa dei grandi animali da lui cacciati – renne, rinoceronti lanosi, mammut – una permanente malnutrizione, comprovata dal graduale assottigliamento dello strato di smalto nei denti neandertaliani più recenti e dalle evidenti prove del frequente ricorso all’ultima risorsa dei disperati in tempi di carestia: il cannibalismo. Una piccola percentuale di DNA neandertaliano, dal 2 al 4%, ce lo portiamo dietro ancora, escludendo gli africani: Barbujani è piuttosto scettico sull’ipotesi dell’ibridazione e più propenso all’alternativa di una comune discendenza (dall’heidelbergensis presumibilmente).
Circa 38 mila anni fa il Neandertal si estingue, varie le ipotesi: la sempre maggiore difficoltà a procurarsi le circa 4000 kilocalorie abbondanti al giorno (un paio di chili di carne, minimo) per persona, necessarie a sostenere una società di cacciatori; la competizione a contendersi spazio e risorse con le comunità sempre più numerose di sapiens che occupavano il territorio, e, forse, i batteri e i parassiti portati dall’Africa dai nuovi arrivati a cui questi avevano sviluppato immunità mentre gli altri no. Poco prima della fine il mondo immobile della cultura neandertaliana si modifica assumendo nuove tecniche, attitudini e strumenti – probabilmente imitati dai sapiens – compaiono penne di uccelli non commestibili e conchiglie per adornarsi, pigmenti per dipingersi e dipingere, forse addirittura pratiche di sepoltura dei corpi e rituali funerari. La scomparsa dei Neandertal segna il passaggio dal paleolitico medio al paleolitico superiore: ormai restiamo solo noi, i sapiens, cui sono dedicati gli ultimi capitoli del libro. Dall’Eva mitocondriale, la nonna di tutte le nonne, come la chiama Barbujani, l’antenata comune secondo le linee genealogiche femminili – in base al fenomeno che in genetica si definisce “coalescenza”; il misterioso Homo floresiensis, ritrovato solo nell’isola di Flores in Indonesia, specie contemporanea dei sapiens ma assai più simile a Lucy che a loro, pigmea e dai grandi piedoni, tanto che è stata spesso chiamata hobbit prima che gli eredi di Tolkien diffidassero legalmente gli scienziati dall’usare quel nome (chissà perché non hanno diffidato anche i neofascisti italiani dal chiamare Campi Hobbit i loro raduni, assai meno innocui delle ricerche paleontologiche…); l’uomo di Cheddar, il primo cittadino britannico, con la pelle scura come l’ebano (come tutti i sapiens fino a circa 5000 anni fa) e gli occhi azzurri (il DNA oggi ci permette di determinarlo) che nella mirabile era Magdaleniana, fra straordinari progressi artistici (Altamira, Lascaux, Chauvet), si dedica anche a occupazioni meno nobili: “prima dello sviluppo dell’industria casearia, a Cheddar si praticava il cannibalismo”; un capitolo su Otzi, la mummia di 5200 anni fa, perfettamente conservata, ritrovata in un ghiacciaio nei pressi di Bolzano: morto ammazzato anche Otzi, di cui sappiamo ormai tantissimo, quanti anni aveva, cosa aveva mangiato, di che malattie soffriva, come era equipaggiato – arco e faretra con frecce, pugnale di selce, ascia con lama di rame, zaino, esche da fuoco e acciarino, funghi medicinali, perfino una perla di marmo – Il genoma di Otzi assomiglia a quello dei primi agricoltori dell’Anatolia.
Siamo ormai nel neolitico – una rivoluzione marciante al ritmo di un kilometro all’anno, tra i 10000 e i 5000 anni fa, tra Anatolia e Portogallo – e i coltivatori e allevatori, che mangiano più cereali e meno carne, sono più bassi e, come dimostrano i loro scheletri, più soggetti a malattie dei loro predecessori: centri abitati e promiscuità con animali completano un quadro epidemico che non ci ha ancora lasciato. Il capitolo finale ospita l’ultimo sapiens della galleria degli antenati: risale a 200 anni fa e si chiama Charles Darwin. Spiritosamente Barbujani trova modo di parlarci anche di lui, dopo aver disquisito di paleontologia, storia, archeologia, antropologia e, ovviamente, genetica, cogliendo, come sempre nei suoi libri, ancora l’occasione per demolire con solidissime argomentazioni biologiche il nefasto concetto di razza. Un libro di scienza approfondito e dettagliato ma che scorre con la piacevolezza e il divertimento di un romanzo. Poi qualcuno si permette ancora di dire che gli scienziati non sanno scrivere.