Il cuore più buio di Nelson George, o l’America oggi

Nelson George, Il cuore più buio, tr. Gianluca Testani, Jimenez, pp. 267, euro 18,00 stampa, euro 9,99 epub

È di questi giorni la notizia del suicidio di John Geddert, allenatore delle ginnaste americane che parteciparono alle Olimpiadi di Londra del 2012, incriminato per traffico di esseri umani, molestie e aggressioni sessuali. L’inchiesta che lo vedeva coinvolto è la diramazione del grande scandalo che turbò l’America nel 2018, quando si scoprì che le giovani atlete erano state perseguitate in modo sistematico da una rete di spietati predatori. In realtà, i “civilissimi” Stati Uniti sono l’epicentro di un mostruoso traffico di esseri umani, in pieno ventunesimo secolo, realtà su cui in pochi puntano i riflettori. Sarebbe un argomento succulento per un romanziere, e un modo per portarvi l’attenzione.

E in effetti uno scrittore ne ha fatto materia narrativa: Nelson George – giornalista, critico musicale, film-maker, produttore televisivo, autore di thriller e noir noti per il personaggio di D Hunter – ha posto il tema al centro del suo ultimo lavoro, The Darkest Hearts, pubblicato in Italia dall’editore Jimenez.

George è tra i maggiori esponenti ed attivisti della cultura afroamericana e della black music, e nei suoi romanzi ha trovato una formula vincente, mescolando i vari elementi dell’identità black nel genere letterario del noir, immettendovi forti dosi di realtà e di storia: una miscela esplosiva.

Il cuore più buio, quinto capitolo della saga di D Hunter, è ambientato in pieno trumpismo, in una California apparentemente solare ma in realtà illividita dalle peggiori nefandezze di cui è capace l’umano. D Hunter ha cambiato mestiere e città: non fa più il bodyguard nella nativa Brooklyn, si è trasferito a Los Angeles ed è un talent manager di successo. La punta di diamante della sua agenzia di management è il giovane e spregiudicato Lil Daye, astro nascente della scena trap di Atlanta (“il centro ufficiale dell’hip pop del ventunesimo secolo”), e D gli ha appena procurato un sontuoso contratto pubblicitario per una marca di liquori da lanciare sul mercato, di proprietà di un losco miliardario dall’emblematico nome di Kurz. Per D l’accordo si rivelerà una sorta di patto con il diavolo, poiché scoprirà che dietro di esso si cela un micidiale progetto ideato da alcuni potentissimi uomini d’affari, impegnati a realizzare le loro idee suprematiste addomesticando e sfruttando l’identità dei neri e la loro musica, manovrandone la cultura per soffocare le sue tendenze progressiste.

In tale purulento contesto di perversioni sessuali e spregiudicati accordi, il torbido passato torna a tormentare il protagonista: a Brooklyn è stato rinvenuto un cadavere, e un agente Fbi e un famigerato sicario, Ice, sua vecchia conoscenza, gli si sono messi alle costole. La vicenda s’intreccia con quella di un altro personaggio noto ai lettori di George: Serene Powers, sempre impegnata nelle sue missioni tese a contrastare un esteso traffico di esseri umani tra Stati Uniti, Europa, Africa e Oriente, che coinvolge “mafiosi, alti dirigenti, cellule terroristiche e altri agenti del capitalismo sotto copertura che traevano profitto dalla vendita di corpi in questa moderna forma di schiavismo”. D le chiede aiuto per sbrogliare un’altra spinosa questione che riguarda il trapper Lil Daye.

Il perno attorno cui ruota la macchina narrativa è un manoscritto inedito redatto da un caro amico di D, un critico musicale morto in circostanze non chiare, Il complotto contro l’hip pop, scomparso e fatto misteriosamente recapitare a D. La musica è il basso continuo che sostiene l’intreccio (i capitoli hanno per titolo quelli di celebri brani hip pop), e George traccia una sorta di storia critica di questo genere musicale e di tutto ciò che ha rappresentato per l’identità black, dalla sua nascita (“dai tempi in cui veniva chiamato rap ed era un movimento sotterraneo, non un giro d’affari da miliardi di dollari”), alle trasformazioni, agli odierni sviluppi, con acute notazioni storiche e sociologiche. La sintesi è spietata: “L’azienda dell’hip pop continua a vivere come il mostro di Frankenstein, costantemente aggiornata, remixata, riconfezionata, ribrandizzata e riavviata, finché tutto ciò che resta è una serie di gesti di ribellione astutamente mercificati. Tale è la via della cultura in America, una terra ingorda e rapace dove il progresso è un nome in codice votato al mercato e la tecnologia un infingardo varco sull’obsolescenza”.

L’hip pop è dunque lo strumento di cui George si serve per sondare la realtà americana contemporanea, una nazione pullulante di “fascisti camuffati da cristiani”, “venditori di scandali mascherati da giornalisti”, un Paese dove regna l’insicurezza e “la barbarie passa per politica di governo”, che “aveva fatto di una collerica e narcisistica star dei reality show, nonché uomo d’affari oberato dai debiti, il nuovo presidente degli Stati Uniti”. Un presidente, “il Putin del Queens”, “trionfo della razza bianca”, che “promuove il peggio dei valori culturali: capitalismo ignorante, misoginia sfacciata, vanterie infondate”.

Il tema dei rapporti razziali, delle minoranze etniche e del razzismo, autentico sottotesto del racconto, è svolto in maniera estremamente realistica, e s’intreccia a quello del limaccioso mondo del business, che davvero cela il cuore più buio di una nazione che non ha ancora fatto i conti con le zone oscure della propria parabola democratica. A sua volta, il mondo degli affari si lega al doloroso percorso di autoscoperta da parte del protagonista: malgrado gli ideali e la moralità che è convinto di avere, D scopre di essere suo malgrado uno strumento del Sistema, una rotella del micidiale e onnipotente ingranaggio del business. Anche l’identità nera, le sue radici e i suoi valori, qui incarnati dalla musica hip pop, escono distrutti dall’abbraccio con quel mostro che tutto governa: “L’hip pop è iniziato nella verità, si è evoluto nel mito ed è degenerato in una fabbrica di soldi”, e la promozione dei suoi valori “va a braccetto con le mirate politiche governative”, si legge nell’esplosivo manoscritto, tramite il quale George traccia una lucidissima analisi del mostruoso incrocio tra politica, finanza e criminalità che determina una società bianca suprematista in grado di controllare e indirizzare ogni forma, persino quella artistica di rivolta, verso i propri scopi.

Attorno a questi e ad altri nuclei tematici – la globalizzazione dei luoghi e delle anime, la solitudine, il passato che ritorna, l’inesorabile scorrere del tempo – si dipana un romanzo pullulante di citazioni da film, canzoni, movimenti sociali (il #MeToo e il #Blacklivesmatter), figure reali di politici e artisti. Ovviamente non mancano le scene d’azione, e George si dimostra a suo agio sia nelle descrizioni che nei dialoghi, ironici e dal sapore prettamente cinematografico.

Insomma, come nella migliore tradizione del noir, il lettore si ritrova coinvolto in un avvincente intreccio di storie e di casi, di foschi personaggi e di innominabili segreti, di azioni ripugnanti e di inattesi slanci d’amicizia. Ma a differenza della letteratura di pura evasione, Nelson George ha scritto un romanzo dalla notevole carica politica, gettando uno sguardo acuto nei meandri oscuri della società di un Paese che si autorappresenta come baluardo di civiltà e democrazia, e nelle tenebre di quel cuore malato che è la nostra vita.