Nel segno dell’(auto)esilio. Vita di Michel Foucault, storia del secolo

La biografia è un genere letterario del tutto inaffidabile, la cui presunta connaturata oggettività viene immediatamente ingabbiata nello sguardo soggettivo di chi racconta, scivolando talvolta nell’agiografico. È un racconto, insomma, il cui rigore e la cui dovizia di particolari celano omissioni ed ellissi. E tuttavia, questa biografia che Didier Eribon – filosofo, antropologo e scrittore, autore del bel romanzo autobiografico sulle sue origini operaie e il suo coming out, ritorno a Reims (Bompiani, 2017) – ha scritto di Michel Foucault (1926-1984), uno dei più influenti pensatori europei del secondo Novecento, è anche una storia di fallimenti, bocciature, rifiuti, incomprensioni e fraintendimenti che culmina, come nelle più tradizionali delle parabole, con un successo di pubblico per certi versi inspiegabile, declinando in una lenta discesa nell’isolamento e nella malattia.

È sì la storia di un intellettuale di successo, ma pur sempre inclassificabile e sfuggente. “Il signor Foucault”, scriverà nel suo giudizio uno dei componenti della commissione che giudicherà la sua tesi di dottorato, “è più filosofo che esegeta o storico”.

Coltivando molti campi del sapere

Ciò che emerge con forza dal ritratto preciso e ragionato di Eribon è la figura di un pensatore vivace e a tratti geniale, non immediatamente brillante o creativo ma profondo, intellettualmente onnivoro, dagli interessi eclettici ed eterodossi rispetto alle correnti dominanti della ricerca umanistica. Filosofo, storico, psicologo, geografo, epistemologo, storico della medicina, della sessualità e delle pratiche di creazione del sé, sociologo e antropologo, topo d’archivio e di biblioteca, Foucault è stato tutto e nulla di preciso, ma non tuttologo – poiché animato esclusivamente da una radicata attitudine alla ricerca rigorosa e dal dubbio che lo spingono ad attraversare quanti più campi del sapere possibile – quanto piuttosto cartografo delle scienze umane. Cosa sia stato, o cosa sia divenuto nel corso del tempo il Foucault studioso può essere esemplarmente descritto da un passaggio del testo che il filosofo della scienza Georges Canguilhem (1904-1995) scrisse come relatore della tesi di dottorato che Foucault otterrà nel 1961 e che sarebbe poi stata pubblicata come Storia della follia nell’età classica:

Si vede bene quale può essere l’interesse di questo lavoro. Come il signor Foucault non abbia mai perso di vista la varietà degli usi che la follia, dal Rinascimento fino ai giorni nostri, offre all’uomo moderno, negli specchi delle arti plastiche, della letteratura e della filosofia; come abbia talvolta sbrogliato e talvolta ingarbugliato molti fili conduttori, la sua tesi si presenta come un lavoro allo stesso tempo di analisi e di sintesi il cui rigore non facilita sempre la lettura, ma che ricompensa sempre lo sforzo di intelligenza.”

Analisi, sintesi e rigore che portano lettori, lettrici, pensatori e pensatrici a continuare ad accanirsi su pagine fitte e straordinariamente illuminanti, a tratti strabilianti. Del resto, sin dagli esordi editoriali, quando Storia della follia sarà ostinatamente rifiutato dalla prestigiosa casa editrice Gallimard, Foucault ha l’ambizione di uscire dai recinti specialistici: vuole raggiungere un pubblico il più ampio possibile. Ci troviamo davanti a un pensatore e scrittore che non rinuncia mai a confrontarsi con tutti i saperi, forme, oggetti e soggetti dell’indagine, si tratti della follia, appunto, di Nietzsche o della figura dello scienziato nei romanzi di Jules Verne.

Sintomatico il titolo che scelse per la sua cattedra d’insegnamento (che ottenne nel 1970) quando fu candidato al prestigioso Collège de France, ovvero “Storia dei sistemi di pensiero”. È illuminante seguire le parole da lui stesso scritte per la candidatura, nella plaquette in cui riassumeva il suo percorso di ricerca:

Ha cominciato così a profilarsi davanti ai miei occhi un nuovo soggetto: il sapere investito all’interno di sistemi complessi di istituzioni. Un sapere al cui riguardo si imponeva un metodo ben preciso: invece di percorrere, come si fa sovente e volentieri, la biblioteca formata dai soli libri di carattere scientifico, diventava necessario esplorare un insieme di archivi, di cui potevano all’occorrenza far parte tanto dei decreti quanto dei regolamenti, tanto dei registri ospedalieri o carcerari quanto degli atti di carattere legale. È così presso l’Arsenal o presso gli Archives nationales che ho avviato l’analisi di un sapere il cui corpo visibile non è tanto costituito dal discorso teorico o scientifico, e neppure dalla letteratura, quanto da una pratica quotidiana regolata.

Guardare metodicamente dentro regolamenti e regolazioni della vita quotidiana. Ecco, la quotidianità: c’è un aspetto che andrebbe sin da subito sottolineato, anche per controbilanciare il suo essere fin troppo sullo sfondo: Foucault è omosessuale. E questo tratto della sua identità – una delle molteplici sfaccettature dell’uomo – divenendo via via meno celato, tenderà spesso a riemergere nella sua vicenda anche come elemento dirimente contro di lui. Eribon fa, per esempio, riferimento ad aspetti della “patologica omofobia” del filosofo Jean Baudrillard (1929-2007) quando quest’ultimo si fece portatore di un attacco virulento e scomposto contro Foucault, dopo la sua morte (probabilmente) per AIDS.

Nell’incipit di Storia della follia nell’età classica, Foucault parla chiaramente di voler fare la storia dell’altra follia, cioè della non-follia di coloro che pretendono di rinchiudere altri in manicomio in quanto folli. In effetti, nella vulgata più popolare – e non del tutto errata! – Foucault è il filosofo dei folli e, in generale, di tutto un mondo di esclusi. In realtà, Foucault ha sempre tematizzato sia le pratiche di assoggettamento (ovvero come i discorsi filosofici, linguistici e giuridici oltre alle istituzioni ad essi collegati, producevano esclusione e dominio) sia le pratiche di soggettivazione (cioè il modo in cui, dentro esclusione e dominio, i soggetti si agitano autonomamente, si sottraggono, mettono in atto processi inattesi), indagando l’enorme spazio di azione tra queste pratiche e i momenti fondativi di istituzioni e forme di ‘governo’. Nella ‘geologia’ delle pratiche di esclusione che il filosofo francese descrive con ampiezza di sguardo e profondità di analisi, la follia è uno dei nomi che comincia ad indicare tutto ciò che si scostava da accettabili e rispettabili norme sociali ossessivamente tassonomizzate perché potessero essere credibili e condivise. Del resto, con l’intensa militanza nel G.I.P. (Groupe d’Information sur les Prisons) da lui co-fondato nel 1971 per indagare sulle condizioni dei carcerati e combattere contro la prigione come istituzione – che culminerà con uno dei suoi capolavori, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione del 1975 –, Foucault maturerà l’idea che l’intellettuale debba impegnarsi anche nei confronti di soggettività fino ad allora rese completamente invisibili dai processi e dai discorsi di internamento: i carcerati come i folli, appunto.

Dunque, per sfuggire ad uno stigma che vive con angoscianti sensi di colpa – e che saranno tra le cause dei suoi tentativi di suicidio giovanili – e per evadere da un ambiente parigino che percepisce chiuso e asfittico, Foucault pratica una forma di (auto)esilio. È a Uppsala (Svezia) nel 1955, poi a Varsavia (1958) e Amburgo (1959), dove svolge mansioni tra istituti francesi di cultura e università. Ma è anche attratto dalla possibilità di spostarsi presso gli istituti di cultura a Tokyo e Kinshasa; sogna una cattedra alla Sorbona mentre insegna a Clermont-Ferrand, ed ha già insegnato all’università di Lille. Non sa stare fermo, nemmeno quando insegna, spostandosi tra mille progetti: è un vulcano di idee, eppure è metodico e non lascia nulla al caso, non solo nella ricerca ma anche nel suo modo di presentarsi in pubblico.

Viene visto come un dandy nella Francia di provincia e come un eccentrico nella Parigi borghese, un insegnante criptico ma affascinante in Svezia, che diventa risolutamente anticomunista in Polonia; è sarcastico e arrogante con taluni, generosissimo anche se incostante con gli amici – come per esempio Roland Barthes (1915-1980), Gilles Deleuze (1925-1995) e, sorprendentemente, Pierre Bourdieu (1930-2022) – quanto feroce con gli ex amici. A farne le spese, tra gli altri, sarà Jacques Derrida (1930-2004) che aveva osato criticare la sua lettura di Descartes in Storia della follia. Emerge, insomma, l’immagine molto ambivalente e sfaccettata di un uomo di volta in volta sobrio ed esuberante, disposto all’ascolto e altezzoso, iperbolico ma non del tutto sincero nei complimenti che dispensava a colleghi ed amici intellettuali e che si accanisce nelle sue battaglie accademiche quando si tratta di promuovere o escludere candidature nelle grandi istituzioni universitarie francesi.

In esilio

L’(auto)esilio, si diceva. Nel 1966 è distaccato all’Università di Tunisi. Durante quel soggiorno, fu testimone dei tumulti del marzo 1968 da parte degli studenti, iniziati con dei pogrom antisemiti nel 1967, scatenati a seguito della Guerra dei sei giorni. Foucault criticò quei pogrom ma simpatizzò sin da subito con le proteste tunisine del ’68, che favorì e protesse pubblicamente anche a nome dell’istituzione francese che rappresentava. A Tunisi però, Foucault perse l’appuntamento storico e periodizzante del maggio ’68 francese ed europeo; eppure, se osserviamo questa vicenda individuale da una prospettiva non eurocentrica, Foucault ebbe l’opportunità di vivere in prima persona quelli che possono essere considerati i prodromi del ’68 europeo nelle agitazioni tunisine – che attraverseranno l’intero mondo arabo – che, come già in altre occasioni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, dimostrarono che l’epicentro delle lotte di sovversione e liberazione scoppiarono a Sud o a Est, alimentate dagli effetti di medio periodo delle lotte anticoloniali e per l’autodeterminazione. Da questo punto di vista, la militanza politica e filosofica di Frantz Fanon (1925-1961) (a proposito del quale fu premonitrice l’intuizione di quel Jean-Paul Sartre (1905-1980) a lungo arcinemico di Foucault) fu sintomo e insieme manifesto di quelle lotte.

A Tunisi, Foucault intuisce come un campo ideologico progressista possa essere attraversato da sentimenti ambivalenti e solo apparentemente contraddittori: marxismo e nazionalismo, antirazzismo e antisemitismo.

Nel 1978, in una condizione di persistente irrequietezza, Foucault decide di recarsi a Teheran: la monarchia persiana sta crollando e lui, emendando una proposta del Corriere della Sera di scrivere riflessioni filosofiche sugli avvenimenti iraniani, decide invece scrivere un reportage sul campo, tornando così alla scrittura giornalistica, genere al quale periodicamente ritornava – scrisse su Le Monde e contribuì, fra l’altro, a fondare il quotidiano Libération.

Foucault scrisse reportage entusiastici (in Italia raccolti sotto il titolo di Taccuino persiano, 2007) nonostante la rivoluzione iraniana stesse inesorabilmente prendendo una piega reazionaria sotto la guida del fanatismo religioso degli ayatollah. Troppo entusiastici, in effetti, gli scritti e i toni: cosa che gli costò critiche ferocissime e forme di ostracismo politico che durarono fino alla sua morte. Il fatto è che in quei movimenti compositi e contraddittori, in cui gli elementi di classe e religiosi sembravano articolarsi in maniera inedita, egli vedeva forme di liberazione sconosciute in occidente. Di certo capì, prima di tanti in Europa, che l’Islam politico e culturale sarebbe stato un fattore dirimente della politica europea ed internazionale. “Sulla terra ci sono più idee di quanto immaginino gli intellettuali” scriverà nel ’78 sul Corriere, aggiungendo che benché non siano le idee a mandare avanti il mondo “è proprio perché il mondo ha delle idee (e perché ne produce di continuo) che non è portato avanti passivamente da coloro che lo dirigono o da coloro che vorrebbero insegnargli una volta per tutte cosa si deve pensare”. Per Foucault, del resto, la critica non era altro che l’arte di non essere governati e, dunque, nemmeno essere soggetti passivi dell’imposizione di idee altrui.

Scrivere con il bisturi

La riflessione, il lavoro di scavo e di ricerca, la scrittura impegnata, assertiva e, insieme, dubitativa di Foucault, continuano ad interrogarci incessantemente. Eribon parla di una “scrittura secca e aggressiva” perché, come dichiarò Foucault stesso in un’intervista, era figlio di un medico e, probabilmente, “ha sostituito il bisturi con la penna” per “portare alla luce, attraverso l’incisione della scrittura, qualcosa che sia la verità di ciò che è morto”.

Come sottolinea Eribon, nel farsi di quella scrittura man mano che Foucault faceva anche i conti con la sua stessa archeologia e genealogia personale, il pensatore francese si spostò gradualmente dal problema della repressione, dei divieti e dell’interdizione dei soggetti al modo in cui sono i soggetti stessi, nelle loro relazioni – intrise di corporeità, doveri, poteri e saperi – a modificare la loro soggettività sulla scena sociale. Questa sorta di teatro del divenire delle identità è stato luogo di formazione per generazioni di pensatori e pensatrici non solo europee o occidentali. Oltre al femminismo e alla teoria queer – che se ne abbevereranno per criticarlo dalle fondamenta – parte consistente del pensiero filosofico, degli studi culturali britannici o di quelli postcoloniali o subalterni indiani, si sono confrontati in maniera serrata con un pensiero che a tratti toglie il respiro ed esige radicalità.

In questo libro denso, ricchissimo di documenti e di vicende umane, storiche e filosofiche – uscito prima nel 1989 e nel 1991 anche in italiano, tornato poi arricchito e rivisto nel 2011 in francese ma solo nel 2021 in italiano –, Didier Eribon racconta aneddoti divertenti, come quando, al culmine della notorietà dopo l’uscita esplosiva di Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966) che divenne subito un best seller, i libri di Foucault abbondavano persino sulle spiagge e le sue idee dirompenti divampavano anche nei rotocalchi popolari.

Ancora oggi, prendere in mano un testo di Foucault e decidere di attraversarlo significa fare un’esperienza del limite e sentire, attraverso una scrittura talvolta davvero chirurgica, quel bisturi che incide, slabbrandoli, il nostro inconscio collettivo e il modo del tutto non innocente con il quale inquadriamo il mondo e le sue forme di vita.


Didier Eribon, Michel Foucault. Il filosofo del secolo. Una biografia, Feltrinelli, pp. 432, euro 28,00 stampa, euro 15,99 ebook