Forse non sono molte le persone che ricordano quei giorni di inizio gennaio 2001, in Italia, annegati nella retorica del nuovo millennio e ancora tutti storditi dal finto benessere degli anni Ottanta e Novanta. Ma proprio in quei giorni le cronache riportavano la triste notizia di una “morte eccellente”: il corpo della contessa Francesca Vacca Agusta riverso senza vita sulle spiagge della costa azzurra dopo essere caduto dagli scogli della sua villa a Portofino. Omicidio? Come qualcuno pensò di sussurrare. O più probabilmente suicidio come poi appurarono le indagini.
Il profilo della donna, quando si tolse la vita non ancora sessantenne, sembrava disegnato apposta per rappresentare i miti effimeri e roboanti dell’epoca. Ex commessa, aveva sposato il conte Agusta, proprietario dell’omonima notissima fabbrica. Alla morte del marito aveva ereditato la sua principesca Villa Altachiara a Portofino, che vide poi il suo suicidio. Frequentava la cosiddetta “alta società” in Italia e a livello internazionale. Era molto vicina a Craxi e, di conseguenza, ai traffici che intorno a quel sistema di potere si sviluppavano. Conduceva una vita intensissima di relazioni amicali, erotiche, commerciali e politiche. È stata oggetto di condanne e mandati di cattura, scontati ai domiciliari. Ricchissima, ai processi se l’è sempre cavata pagando cauzioni. Ma era tutt’altro che un’avventuriera. Molto probabilmente però aveva un carattere debole, era una grande individualista affetta da narcisismo pernicioso, la stessa malattia che imperversava in Italia tra politici, imprenditori, personaggi pubblici e non solo, di cui oggi subiamo ancora le conseguenze.
Risulta allora evidente come tutta la vicenda della contessa Agusta vada ancora raccontata, per essere capita sul piano umano, sul piano simbolico e su quello culturale. Ci ha pensato brillantemente Valerio Aiolli in Portofino blues, libro che certamente assume in diversi momenti l’aspetto del racconto noir, dell’indagine poliziesca e della spy story, come la vicenda richiede. Ma che ha il suo punto di forza nell’individuare in alcuni particolari degli elementi universali che fanno della contessa Agusta un’eroina (un’antieroina?) della sua epoca diventando quasi un simbolo dei nostri tempi.
La contessa Agusta è sopraffatta da sé stessa, dalle sue debolezze dai suoi falsi miti. Perde una battaglia che non aveva neanche pensato di dover combattere, perché tutto il bene, tutta la ricchezza e tutta la fortuna le erano cadute tra le mani. Non aveva dovuto conquistare nulla, apparteneva a quella specie di “unti del signore” di berlusconiana memoria.
Tutto intorno c’è la dura e cupa realtà dell’Italia delle trame, dei traffici illeciti, del potere che si gonfia e si rafforza senza mai pagare per le responsabilità illegittime. Ci sono le ricche regioni del nord del nostro paese che confinano troppo da vicino con la Svizzera in linea geografica e con la politica sul piano degli affari che prevedono sostegni pubblici.
Aiolli si muove secondo i criteri dell’indagine sul campo e, in parallelo dell’indagine psicologica del suo personaggio principale. Non si sbilancia in modo evidente in giudizi men che mai affrettati. Si muove seguendo il senso di un interrogativo che un cronista o un investigatore di solito tengono sotto controllo. L’interrogativo, semplicemente è: perché? Cosa è passato nella testa e nel cuore di quella donna ancora giovane, bella e ricca? Qualcosa continua a sfuggire, ma le note salienti e forse inspiegabili di quel blues risuonano ancora.