Claire Goll / Moralismo e libertà nel ’900, e dopo

Claire Goll, Cercando di afferrare il vento, cura Dario Borso, Prospero Editore, pp. 420, euro 18,00 stampa

Recentemente, Dario Borso è stato sospeso per tre giorni da Facebook per aver postato la “miglior recensione” di questo libro, ossia un pun, per la verità composto da due parole soltanto: “Golla profonda”. Il riferimento al film porno dell’inizio degli anni Settanta con Linda Lovelace non è stato ritenuto all’altezza degli standard (sempre piuttosto dubbi, del resto) del social network in questione; probabilmente, però, pur rendendo bene (perlomeno nell’altra accezione, divenuta comune, di “gola profonda”) la natura quasi scandalistica di alcuni passaggi di Cercando di afferrare il vento di Claire Goll, non si tratta nemmeno della “miglior recensione” del libro, tradotto e curato proprio da Dario Borso per le edizioni Prospero.

Claire Goll

Infatti, se da un lato, è vero che lo sguardo di Goll si sofferma su una serie davvero ragguardevole di personaggi della cultura mondiale della prima metà del Novecento, mettendone a nudo vizi personali e talvolta anche qualche mistificazione critica a riguardo della loro opera, è d’altra parte, e in modo forse più conciliante, il suo ruolo di testimone e attrice dei vari luoghi e tempi da lei attraversati a prendere infine il sopravvento, nel corso del libro.

Da un lato, quindi, Goll punta il dito e talvolta ambisce a una vendetta violenta, sui suoi antagonisti, che sia anche una sorta di nemesi – come si legge in una sua intervista rilasciata nel 1976, riportata da Borso nella breve ma utile e come sempre arguta introduzione: “Tutte le persone che mi fanno del male crepano. Ne ho uccise tre: mia madre, Kurt Wolff e Paul Celan” – senza mai lesinare commenti e critiche, talvolta chiaramente compiaciute. Con l’eccezione della madre, il cui ritratto è sì terribile, ma talora presenta anche toni affettuosi (così come sono pagine d’amore quelle dedicate al marito, il poeta Yvan Goll), Goll ha in mente sin dalla prima riga una serie molto lunga di bersagli – all’interno del pantheon culturale della propria epoca – quasi esclusivamente maschile: “Ho conosciuto grandi uomini, perfino dei geni: Joyce, Malraux, Saint-John Perse, Einstein” – verso quest’ultimo, in realtà, l’occhio critico di Goll si fa mansueto, quasi impalpabile – “Miller, Picasso, Chagall, Majakovskij, Rilke, Montherlant, Cocteau, Dalì, Jung, Artaud, Lehmbruck, Brancusi…”

Alcuni giudizi sono platealmente eccessivi, come ad esempio la celebre accusa di plagio degli scritti di Yvan Goll da parte di Celan (adeguatamente smontata, nell’introduzione, da Borso, che è uno dei massimi esperti italiani della poesia di Celan); altri sono decisamente gustosi, e non per amor dello scandalo, ma perché difficilmente in altre opere si potrà leggere, ad esempio, di James Joyce: “Tra i grandi nessuno era bloccato come Joyce. Un pesce polare? Un gambero con carapace d’ostrica? [Rispetto troppo gli animali, siano pure meduse o molluschi, per compararli a questa mummia impagliata, a questa scorza senza linfa né calore, a questo frutto secco di Joyce. Dal punto di vista umano, il fiasco più funebre della creazione, anche se conta tra i grandi successi della letteratura]”. Dove le parentesi quadre rappresentano l’intervento restauratore del testo originale, originariamente pubblicato con vari omissis censori, da parte di Borso, qui molto a suo agio nella veste di filologo eterodosso (in quanto filologo a tutto tondo, come si è avuto occasione di scrivere in merito al suo Ostaggi d’Italia) e comunque sempre puntuale.

Tuttavia, Goll si rivela, più che altro, una testimone “informata dei fatti” rispetto al suo tempo e fornisce resoconti coloriti, ma sempre approfonditi e con risvolti peculiari, di vari luoghi e momenti della produzione intellettuale e culturale occidentale della prima metà del ventesimo secolo: dalla Zurigo dei dadaisti a quella comunità sul Monte Verità di Ascona, nel Canton Ticino – oggetto, fino al 10 aprile 2022, di un’importante mostra al Museo Novecento di Firenze – per arrivare alla Parigi entre-deux-guerres e all’esilio “dorato” (le virgolette sono d’obbligo) sull’East Coast, Goll è sempre un’esploratrice attenta e arguta di quel che le succede intorno, e in casa.

A questo si deve anche aggiungere la sua idiosincratica posizione nei confronti dei movimenti femministi, ai quali guarda con forte diffidenza, talora presupponendo una netta differenza di condizione biologica e di potenziale intellettuale tra i due generi, a favore di quello maschile. Che si tratti o meno di misoginia introiettata – per un’autrice che dichiara di aver raggiunto per la prima volta l’orgasmo a settantasei anni (gettando, così, un ulteriore fascio di luce sinistra sui rapporti tra i generi, all’interno delle élites culturali dell’epoca) – non è facile capirlo; senza dubbio, però, si tratta di un altro risvolto della narrazione, analogo ad alcune pagine sulla madre, nella quale Goll cerca di riequilibrare il proprio punto di vista critico sul pantheon maschile da lei costantemente mosso alla berlina.

Considerando l’intensità dell’introspezione e la continua ricerca, per quanto sotterranea, di un equilibrio all’interno dell’opera, si può iniziare a circumnavigare quel concetto di “autenticità” che è sempre di difficile e complessa attribuzione per una scrittura autobiografica o memorialistica come questa. Se di “autentico”, in ultima istanza, è impossibile parlare, risulta però chiaro come in Cercando di afferrare il vento la qualità della scrittura di Goll si elevi, forse di molto, rispetto ad altre sue prove letterarie finite nell’oblio (ma che non sono, per questo motivo, spunto sufficientemente opportuno per una riconsiderazione moralistica dei suoi acuminati giudizi).

Come dimostra il titolo scelto, con la citazione dall’Ecclesiaste, l’idea di fondo che sorregge tutta l’opera, meritoriamente riproposta da Prospero, è la convinzione che, oltre un certo livello mitografico sempre molto forte (specie in rapporto al canone letterario consolidato), “tutto è vanità” e, alla luce di questo, le nuove interpretazioni possono essere molte, disinibite e, infine, libere.