Forse è davvero un ingorgo tecnologico quello che stiamo vivendo se la prossima rivoluzione tecnologica arriverà dall’ingegneria biologica – come sostiene l’ex direttrice del MIT, Susan Hockfield nel suo ultimo libro, The age of living machines – mentre il nostro “futuro presente” comincia appena a familiarizzare con l intelligenza artificiale, il marketing predittivo, le guerre digitali. Cosimo Accoto, Research Affiliate al MIT di Boston, ha scelto un taglio filosofico divulgativo per sintetizzare la sua ricerca nel campo dell’innovazione strategica attraverso le tre dimensioni di quella che egli stesso definisce l’età dell’automazione: automazione di infrastrutture, di esperienze computazionali (cognitiva) e di procedure (istituzionale).
Per fotografare la mappa del cambiamento, l’autore si concentra su cinque tracce: la conoscenza dopo il deep learning e l’automazione del sapere, il lavoro nel capitalismo delle piattaforme, le organizzazioni e i mercati alla luce della filosofia della blockchain e degli smart contracts, le cyber guerre e, soprattutto, le sfide che l’automaticità al potere pone al governo politico di domani.
A partire da una premessa apparentemente “forte” – “il futuro sarà automatico o non sarà affatto” – le premesse storiche lasciano il posto all’osservazione filosofica: le tecniche di machine learning che 20 anni fa hanno tolto dal frigorifero le AI e mandato in soffitta i sistemi e la logica simbolica alla Marvin Minsky, affermano ora l’indeterminatezza della computazione alla base del suo dinamismo. La “computazione contingente”, per dirla con la filosofa Beatrice Fazi, attualizza il nostro orizzonte ontologico nell’ ibrido uomo – macchina. Un ibrido che, in primo luogo, istanzia il codice dei fattori produttivi – sempre più “capital intensive”, al di là degli esiti e del dibattito un po’ trito sulla disoccupazione tecnologica.
Accoto, citando Hanna Arendt e la Vita Activa, distingue la dimensione del lavoro da quelle dell’azione e dell’opera, auspicando che l’automazione possa liberare il tempo dell’empatia, in un mondo non più “user-centrico” né “macchino-centrico”, dove l’ominazione è chiamata a negoziare la sua permanenza ed evoluzione sul pianeta. Un mondo anche molto pericoloso che si riflette negli automatismi della cyber-sicurezza, dove l’umano è ormai quasi solo d’impaccio, e dove, al di là delle chiacchiere, vince in genere chi colpisce per primo o gioca d’anticipo, adescando e aggirando l’avversario.
Per Accoto il crittografo è il vero economista del ventunesimo secolo (e la crittografia, se ne deduce, la prossima “scienza triste”). La filosofia della blockchain, che ha capovolto l’orizzonte illimitato dell’abbondanza con il concetto di “scarsità digitale”, grazie alla programmabilità dei contratti, dei mercati e delle organizzazioni, permette di ridefinire lo statuto della proprietà privata. Al di là dell’iperbole, le diverse implementazioni della blockchain aprono oggi il confronto sociale, prima che tecnologico, tra consensualità decentrata e centralizzazione della fiducia. Non solo ma la prospettiva di mercati automatizzati al di là dei comportamenti “effettivi” dei consumatori porta a un nuovo livello, la vecchia contrapposizione tra pianificazione centralizzata e libero mercato. Autori come Posner e Weyl (Radical Markets) suggeriscono che presto con i big data e il riconoscimento dei pattern di consumo il vecchio buon “mercato” – una “macchina di calcolo” sempre meno efficiente per processare le informazioni necessarie all’avanzamento dell’economia – sarà solo un ricordo del passato. Persino molte delle critiche alla pianificazione centralizzata potrebbero venire meno.
Un’ipotesi che, ovviamente, ricade anche nell’orizzonte dell’azione politica. “Autenticazione e anonimità, fiducia e decentralizzazione, autonomia e sicurezza, integrità e certificazione non sono tecnicalità ma i vettori di una società e di un’economia che si stanno disegnando e costruendo su nuovi automatismi istituzionali, materiali e culturali al tempo stesso”. Il mondo ex machina offre molti spunti d’interesse, anche grazie a fonti bibliografiche puntuali e aggiornate, assieme a numerosi freschi neologismi, usati insistentemente dall’autore per orientare i concetti di un nuovo, possibile senso comune. Uno per tutti, il concetto di programmabilità al posto di quello anni Novanta di immaterialità. Perché gli oggetti digitali non sono oggi immateriali, sono programmabili.