Terza centuria di poesie per Silvia Bre alle prese con la lingua oppositiva di Emily Dickinson. La poetessa di Amherst ha costruito il proprio volto, misterioso quanto si vuole, divinatorio fin dove arriva la nostra immaginazione, proprio nei nodi e nei contrasti della sua esistenza. Non sappiamo quanto di vero e d’inventato aleggi, lungo il Novecento che si è preso in carico d’interpretarla, nella ferrea circonferenza della vita di Emily. Il successo popolare della poetessa sembra coltivarsi lì dentro, ma l’attenzione critica è sempre andata ben oltre. Il percorso circolare entro cui sta l’interesse per il divino e per la quotidianità dei rapporti, questi ultimi più dominanti di quanto in genere si crede, è fatto di contrapposizioni che si sommano e accavallano lungo l’intera serie di poesie conosciute. I nodi, gli incontri e le perdite umane riferiti alla sua vita sono trasformati in una enorme fiera della metafora, tanto da produrre nella mente del lettore un cortocircuito per niente fortuito, dove pudore, incertezza, reticenza, si accordano perfino con alcuni testi biblici. Viene da lontano la natura dell’enigma, incarnato nella figura femminile che si crede solitaria e stretta nelle anguste mura casalinghe. Questo non è del tutto vero, ma la mitologia nutre la spudoratezza di chi vuol leggere quel che vuole dentro ogni singola poesia.
Esattamente il contrario della forza traduttrice di Silvia Bre, il cui rispetto verso il testo d’origine non solo esalta ambiguità e significati intrinseci, ma porta nella nostra lingua qualcosa che prima non si era mai letto. Eppure le traduzioni del corpus sono innumerevoli, molte generazioni negli ultimi decenni si sono confrontate (anche con indubitabile valore) con questa vastità mareale (1775 poesie). Bre però non asseconda l’inespresso, ma rende ogni volta più limpida e in primo piano la metafora, essendo ferree le parole scelte affinché l’interezza del vocabolario di Dickinson parli convincente e stabile nella relazione con noi. I temi sono quelli, si conoscono fin troppo bene, morte e natura invadono l’intero campo mentale della poetessa e vanno da sempre incontro alle nostre più o meno consolatorie domande e risposte esistenziali. Ma qui accade qualcosa di diverso. È il significato “ordinario” a saldarsi alla lingua italiana, rivelandone la profondità inequivocabile, data, non allontanabile. Nessun rigiro enigmatico, ma saldezza d’eloquio. Quel che è, appare. Urgente e finito.
Se parola è “fidata”, deve esserlo nel pieno della lingua scelta dalla traduttrice, rivelatrice di ogni intrico e metrica esigente dell’originale. Una velocità di sguardo lo caratterizza, in contrasto con la congenita lentezza della poetessa alle prese con l’umanità. Un circuito in cui si è rinchiusa per l’intera esistenza, fino al 1886, anno della morte. Come è stato detto, il suo “assaggio” alla vita non è mai sfociato in un attacco vorace. Le traduzioni, nelle tre centurie pubblicate nel corso degli anni, vi si accostano precise e senza riverenza, contengono in sé l’integrità corporale dell’autografo. In questo, va detto, sono implacabili. E qui sta la preponderanza dell’impegno.
Resta d’accordarsi ancora una volta alla parola di Emily Dickinson, mediante questo terzo tramite: il morso di una radice salutare dopo un periodo di lunga smemoratezza. Non si tratta di profondità poetica, troppo spesso fraintesa, ma di una distanza fra due mondi che si vuole cancellare. Ancora una volta, libri come Questa parola fidata impediscono la perdita di lasciti che fino a ieri sembrano inequivocabili.