Intervista a Zhang Ran

A 38 anni Zhang Ran (张冉) si iscrive a quella seconda ondata di scrittori e di scrittrici millennials che comprende Chen Qiufan, Fei Dao, Bao Shu, Ling Chen, Zhao Haihong, Xia Jia, Hao Jingfang e che vuol portare la fantascienza cinese a un nuovo livello. La prima generazione, quella di Liu Cixin e di Wang Jinkang, diventati famosi anche dalle nostre parti, ha rimesso in moto l’astronave negli anni Novanta, portandosi dietro l’immaginario di un Paese con un futuro (al tempo) in crescita a doppia cifra, che anche attraverso la sua speculative fiction ha potuto confrontarsi con un’utopia tecnologica e sociale scintillante ma non priva di lati oscuri.

Yitai (“Etere”), il primo romanzo breve di Zhang Ran tradotto in Occidente (in Italia è edito dalle edizioni Future Fiction) si svolge apparentemente in una periferia americana ma tratta un tema sensibile per la narrazione cinese come la censura e il controllo sociale.

Innanzitutto, lei viene dal giornalismo economico e da una “piccola” città della Cina, il che è probabilmente sulla scala europea è un termine molto relativo.

Ho vissuto dieci anni a Pechino, mentre lavoravo come reporter a un giornale che si chiamava Economic Daily. Quando ho smesso per diventare scrittore a tempo pieno mi sono trasferito in un’altra grande città, Shenzhen, nel sud della Cina. Lì ho vissuto sette anni prima di tornare nella mia home town, Taiyuan, nella provincia di Shanxi, non molto lontano da Pechino, dove vado una volta o due al mese. Fa circa quattro milioni di abitanti, quindi è piuttosto piccola per la scala cinese (ride).

In Cina la letteratura di genere si è diffusa negli ultimi venti anni soprattutto grazie a Internet, con modalità diverse e più flessibili rispetto a fanzines, vecchi pulp o dai libri. Lei per esempio ha pubblicato online The Name of the Former Traitor Saigelaisi con lo pseudonimo di Zhuxie Duowen, diventata poi la saga cyberpunk Star Throne di Zhan Ran…

In Cina la fantascienza oggi nasce solo online e raggiunge una fascia sterminata di lettori rispetto al resto del mondo. In fondo non potrebbe essere diversamente: il cinese non è l’inglese e con il suo sistema di scrittura un titolo come Star Throne stampato in lingua cinese occuperebbe una dozzina di volumi.

Etere si sviluppa in un’atmosfera distopica, con una società segreta alla Fight Club, il protagonista beve whisky, ma più che all’America la storia fa pensare alla Cina di un futuro imprecisato. O è già il presente? 

In Cina evitiamo di usare nomi reali anche per le città, e Etere potrebbe svolgersi probabilmente in qualsiasi città del prossimo futuro. Personalmente non sono molto legato al filone distopico, da studente anche al college leggevo soprattutto letteratura fantasy, ma con Etere ho voluto uscire dalla mia comfort zone e provare a scrivere una storia di fantascienza.

Nel racconto la Rete è interamente controllata dal potere, al punto da risultare noiosa per il protagonista, una sensazione che per altro in Occidente stiamo cominciando a conoscere grazie ai social come Facebook…

In questo caso ho potuto attingere dalla mia precedente esperienza nei media, che in Cina, come noto, sono filtrati da agenzie governative o da realtà economiche vicine al governo. Una notizia per uscire deve essere approvata e il tuo lavoro di reporter si svolge sempre sotto l’occhio di un controllore.

Per restare ai classici, il nostro presente oggi assomiglia più al futuro immaginato ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley o a quello di 1984 di George Orwell? 

Direi che in questo momento Orwell vince su Huxley.

A partire dal successo di Il problema dei tre corpi di Cixin Liu, vincitore del Premio Hugo nel 2014, il pubblico occidentale e italiano ha ‘scoperto’ da un giorno all’altro la narrativa speculativa cinese che però ha alle spalle almeno un secolo di storia. 

Nel primo Novecento, alla fine della dinastia Qing, si è cominciato a tradurre Jules Verne, ma soprattutto a pensare la fantascienza come a qualcosa di cui la Cina aveva bisogno per immaginare il suo futuro di “super-potenza” di lì a cinquanta o cento anni. Dopo il 1949, nei primi anni della Repubblica Popolare, la science fiction era forse più ‘science’ che ‘fiction’, una forma di letteratura popolare associata alla divulgazione scientifica, e non all’entertainment, o almeno questa è la linea che ha prevalso fino al 1960, prima che la fantascienza cadesse in discredito presso i nostri leader politici, e ci restasse all’incirca fino alla metà degli anni Settanta. Di lì parte una graduale ripresa d’interesse, che approda – tra la fine degli Ottanta e i primi Novanta – alla cosiddetta Golden Age. Al centro di questa rinascita c’è una rivista, Science Fiction World, stampata in lingua cinese, che diventa rapidamente la prima al mondo nel suo genere, con un milione di copie vendute ogni mese. La gente ama la fantascienza, la scena offre almeno 40-50 scrittori che si affermano rapidamente nel gusto del pubblico. Su tutti, ci sono i Big Four, come vengono soprannominati Wang Jinkang, Hang Song, He Xi e Liu Cixin. Questa generazione che esce allo scoperto tra gli anni Novanta e i primi anni 2000, noi la chiamiamo “new generation” per distinguerla da quella degli anni Settanta. Dopo è arrivata la “newer generation”, influenzata direttamente da Internet, con autori come Chen Ciufan e romanzi come il suo The Waste Tide.

Tornando a noi, l’esperienza di Etere è stata un inizio o la fantascienza resterà per lei una parentesi?

Sicuramente un inizio, nel romanzo che sto scrivendo, e che dovrebbe uscire il prossimo anno, provo a costruire una storia cyberpunk con caratteri orientali e cinesi. Ma direi, molto più punk che cyber, perché oggi, a differenza che ai tempi di Neuromante di Wlliam Gibson, la Rete è nel tuo frigorifero come nelle tue scarpe, dappertutto nella tua vita e tu non puoi sfuggirle. Non è più questa la dimensione da mettere a fuoco, il problema diventa gestire la nostra rabbia, capire come combattere, e qui sta credo il lato punk.

Tra gli autori fantascienza che ha amato, quali considera oggi più ispirazionali per il suo lavoro letterario? 

I ‘big three’ del passato per me sono Isaac Asimov, per le tre leggi della robotica, poi Robert A. Heinlein e Philip K. Dick. Tra i contemporanei scelgo senza esitazione Ted Chiang.